E’ uscito per le edizioni CLEAN il mio nuovo libro, il titolo è “Le dimensioni della terra”. E’ una raccolta, come dice il sottotitolo, di letture sul territorio rurale, il paesaggio, la città. In qualche modo una sintesi delle cose che ho cercato di approfondire e comprendere in questi ultimi trent’anni. Ecco l’introduzione.
Gli scritti raccolti nel volume riguardano il mio lavoro: faccio l’agronomo, mi occupo di suoli, terre, paesaggi, della cura e del governo del territorio rurale. Come dice il sottotitolo, non si tratta di testi specialistici, di un resoconto tecnico delle cose di cui mi occupo, quanto piuttosto di letture.
Esercitare questo tipo di lavoro in Campania, in Italia; superare ogni giorno le difficoltà e i problemi che si presentano, è più difficile, direi impossibile, senza un’attività collaterale, continua, di riflessione sui presupposti e gli obiettivi del proprio operare, e un impegno deliberato per raccontare e condividere nel dibattito pubblico tutto questo.
Dalle attività di riflessione e divulgazione nascono quindi i testi riuniti in questo libro. Seppure diversi tra loro per lunghezza, strutturazione, linguaggio, essi vengono proposti come letture: oltre l’aspetto conoscitivo, informativo, certamente importante, l’obiettivo è anche quello di proporre e condividere storie, racconti la cui lettura offra, si spera, aspetti di curiosità e piacevolezza disinteressata.
Il racconto inedito con il quale il volume si apre è stato scritto nell’arco di alcuni mesi, a partire dal dicembre del 2012, ed è il nucleo iniziale attorno al quale il libro si è formato. È una sintesi in forma narrativa di tante e disordinate letture sull’origine, l’evoluzione e il funzionamento dei paesaggi rurali mediterranei, con uno strano andamento a ritroso, fino alle soglie della storia, partendo però dall’oggi, dalle cose che questi delicati sistemi ecologici e sociali tentano ancora strenuamente di comunicarci.
Il secondo testo è una riflessione, anch’essa inedita, scritta mentre il libro si andava componendo, su come è cambiato l’uso delle terre d’Italia nell’ultimo secolo e mezzo, dall’unificazione politica del Paese a oggi. Il modo con il quale le superfici agricole, forestali, urbane cambiano nel corso del tempo racconta molto di noi e della nostra storia. L’obiettivo era quello di suggerire una possibile periodizzazione, in vista di approfondimenti di maggior respiro; ma anche quello di sollecitare una maggiore consapevolezza delle urgenze del periodo che stiamo vivendo, assolutamente necessaria per elaborare strategie adeguate di governo delle terre e dei paesaggi d’Italia in questo primo scorcio di millennio.
La terza lettura è la rielaborazione di un saggio divulgativo scritto per un volume a tiratura limitata edito nel 2022 dall’Istituto della Enciclopedia Italiana “Treccani”, dedicato alla Campania. È una riflessione sui rapporti di lunga durata tra territorio rurale e città in questa bella e complicata regione d’Italia, dall’antichità, sino al disordinato mosaico contemporaneo nel quale la nostra vita si svolge.
Viene poi uno scritto di quasi vent’anni fa, che da allora non ha smesso di accompagnarmi, perché contiene la traccia e i riferimenti vitali di molte delle attività che mi sono trovato a svolgere poi: è un viaggio attraverso le differenti letture che tre grandi interpreti della questione meridionale – Antonio Genovesi, Giustino Fortunato, Manlio Rossi-Doria – nell’arco di un paio di secoli hanno fatto del capitale naturale, del patrimonio di risorse territoriali di cui dispone il Mezzogiorno d’Italia.
Quello che mi interessava era ragionare assieme a loro sulla natura relazionale e dinamica del concetto di “risorsa”, qualcosa che sta all’interfaccia tra i caratteri e i funzionamenti delle terre e degli ecosistemi da un lato, e le capacità, i bisogni e i valori delle società che li abitano e li utilizzano dall’altro. Tutte cose che cambiano e si evolvono nel tempo, costringendo ogni generazione a riformulare coscientemente problemi, priorità, corsi possibili di azione, in un lavoro nel quale scienze sociali, storia, ecologia, agronomia, geografia, economia, devono giocoforza lavorare insieme, come possono.
Chiude il volume una riflessione sul ruolo e il significato dell’agricoltura nell’Italia di inizio millennio, già pubblicata come introduzione al libro del 2018 “Ultime notizie dalla terra”, una raccolta di reportage – ora si chiamano longform – scritti per l’edizione di Napoli del quotidiano “la Repubblica”. Il progetto ideato con Ottavio Ragone, responsabile della redazione napoletana del giornale, era quello di raccontare a un pubblico più largo, mentre infuriava la tempesta di “Terra dei fuochi”, le diverse agricolture della Campania, i processi, i paesaggi, le persone che ci lavorano, evitando i pregiudizi generalizzati che stavano screditando un intero settore della società e dell’economia, oltre che le matrici ambientali, le terre, i suoli, le acque di un’intera regione.
C’entra qui la questione del giornalismo, un’esperienza per me fondamentale di conoscenza e formazione. Il metodo in fondo è sempre quello: documentarsi, andare sui luoghi, osservare, parlare con le persone, e poi velocemente buttar giù un racconto, badando che sia interessante, che venga voglia di leggerlo, che parli una lingua credibile, vicina a quella del lettore. Tutte cose che sei costretto a fare in un tempo limitato, e la cosa che colpisce è la capacità di questi scritti partoriti in velocità, quando li riprendi poi a distanza di tempo, di sorprenderti ancora, di proporti squarci inattesi di ragionamento, farti riscoprire cose che non sapevi di sapere. La conclusione è che si tratta a tutti gli effetti di una ricerca sul campo, e non sbagliava Manlio Rossi-Doria quando diceva ai suoi studenti che lo strumento più importante per un economista agrario è la suola delle scarpe, per sentire camminando come cambia la qualità del suolo. Per quanti avessero interesse, articoli e reportage sono tutti raccolti nel blog che in qualche modo cerco di far vivere, l’indirizzo è http://www.horatiopost.com. Il libro termina con un frammento, l’incipit di un racconto pubblicato nel 2008, con le illustrazioni emozionanti di Oreste Casalini, il titolo di quel librino era “La terra lasciata”, per tanti motivi riprenderlo mi è sembrato un buon modo di chiudere il volume, così come il paesaggio di Oreste in copertina il modo migliore per iniziarlo. In ultimo devo ringraziare Vezio De Lucia, con il quale ho discusso tante volte le cose trattate in queste pagine, per le osservazioni e i consigli che mi ha dato nella realizzazione del libro.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 14 agosto 2025, foto di Luca Ciardiello
Un viaggio oltre la città, per foreste vetuste, antichi giardini, arboreti secolari della Campania, alla scoperta di luoghi storici un po’ diversi dagli altri, che non sono fatti di pietra ma di rami e foglie: scrigni silenziosi di memoria, che sono anche depositi di biodiversità e bellezza, di segnali e risorse buone per il futuro.
La prima tappa è a Valva, piccolo borgo arrampicato sui versanti della valle del Sele, poco più di un’ora da Napoli, lasci l’autostrada a Contursi e prendi la superstrada per Lioni, una delle strade-paesaggio più belle della Campania. La piazza del paese è una terrazza che si affaccia sulla valle, il paesaggio è notevole, ed è qui che trovi l’ingresso al Parco di Villa d’Ayala-Valva, un luogo magico, te ne accorgi dopo pochi passi nella foresta secolare, sembra di stare nel bosco di E.T. l’extraterrestre, con gli alberi enormi e gli uomini che diventano piccoli piccoli. Oppure nel mistero di una cattedrale gotica, dove i tronchi monumentali sono i pilastri di un’architettura altissima, solenne, col sole che filtra appena tra le vetrate verdi del fogliame.
L’occasione per la visita è la conclusione dei lavori di restauro del Parco, grazie alle risorse del bando “Giardini storici” del PNRR. Un progetto quello di Valva che si è fatto apprezzare a scala nazionale, per la scelta di mettere al centro il patrimonio arboreo, l’architettura vivente, oltre che quella costruita, con un’attenzione particolare alle condizioni di salute e stabilità di ciascuno degli alberi secolari, riconosciuti come monumenti fondamentali del Parco, accanto alle statue, le fontane, l’elegante dimora nobiliare.
La storia del Parco inizia alla fine del ‘700, per iniziativa del marchese Giuseppe Maria Valva, ministro di Ferdinando IV di Borbone per i Ponti e le Strade del Regno, che volle realizzare proprio qui, nel borgo minuscolo che la sua famiglia governava dal tempo dei Normanni – tra oliveti, vigneti e campi di grano – qualcosa di simile alle regge borboniche di Caserta, Capodimonte, Portici.
Il progetto è visionario, con un mosaico sorprendente di foreste e stupendi giardini all’italiana: il giardino di Diana, prossimo all’ingresso, l’Emiciclo della bellezza, i giardini del Castello, che visti dalla loggia, sullo sfondo del bosco monumentale e del monte Marzano, sono un paesaggio mozzafiato. Sino al gioiello inaspettato, il Teatro di Verzura, l’emiciclo aggraziato, disegnato dalle siepi di bosso, dalle quali fanno metafisicamente capolino busti marmorei di nobili spettatori.
La foresta poi è un ecosistema assai complesso, che ti consente di ammirare, nello spazio conchiuso dei sedici ettari del Parco, pressoché tutte le specie arboree d’Appennino, dal leccio mediterraneo al faggio continentale, assieme a una varietà di conifere esotiche che il marchese fece giungere via mare dai quattro angoli del pianeta. Disseminati nella foresta, una cinquantina di patriarchi, gli esemplari stupendi, monumentali di leccio, acero, cerro che abitavano questi luoghi già nel ‘700, prima che il Parco fosse pensato.
La realizzazione del Parco è durata quasi un secolo, e ha richiesto l’impegno di più generazioni: alla morte di Giuseppe Maria il lavoro prosegue per opera del nipote Francesco Saverio d’Ayala Valva, il cui testamento è la lapide affissa all’inizio del viale d’ingresso, datata 1857, con la preghiera e il monito di curare, rispettare e far vivere questo luogo di bellezza così faticosamente creato.
E’ invece dei primi decenni del ‘900 la risistemazione dei giardini e la ristrutturazione del castello nobiliare, sino all’estinzione della famiglia, nel 1951, e il passaggio in eredità del Parco al Sovrano Militare Ordine di Malta, attuale proprietario del sito, che con lungimiranza promuove l’apertura al pubblico grazie a una convenzione con l’amministrazione comunale.
Ad accoglierti, nei locali suggestivi d’ingresso, i ragazzi e le ragazze di Valva, che l’amministrazione comunale ha voluto coinvolgere nella nuova vita del Parco, riaperto al pubblico dopo la conclusione dei lavori di restauro dei viali, la pulitura del patrimonio scultoreo, il ripristino dei sistemi di illuminazione e del palco del teatro di Verzura, che riprenderà da ora ad ospitare tutto un programma di concerti e spettacoli.
E’ un impegno davvero grande per un comune così piccolo, che pure ha saputo impiegare con competenza, sobrietà e un progetto credibile le risorse messe a disposizione dal PNRR, attivando una squadra di una quarantina di tecnici e specialisti, con la supervisione del Dipartimento di Agraria della Federico II, in una collaborazione di studio, ricerca, assistenza scientifica che continuerà grazie a un’intesa pluriennale. Tutto questo, in piena sintonia con l’Ordine di Malta che è proprietario del sito.
Insomma, quella di Valva è una buona storia. La conclusione è che per le nostre aree interne, dove resta tanta parte del vissuto e del capitale civile e naturale del Paese, la strada dell’estinzione inesorabile, mestamente prefigurata nel piano strategico governativo dello scorso marzo, non è l’unica, uno spazio per l’intelligenza e il coraggio di guardare avanti c’è ancora, basta sostenerli e crederci.
Antonio di Gennaro, la Repubblica, ediz. Napoli, 17 febbraio 2025
Parla delle cose che sono ora al centro del dibattito pubblico il nuovo libro di Carlo Iannello “Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà”: l’erosione dei poteri democratici ad opera dei nuovi padroni del web e della finanza. Si tratta di cose divenute evidenti a tutti dopo l’elezione del nuovo presidente americano: l’avanzata delle tecno-destre, descritta e analizzata negli articoli di Ezio Mauro su questo giornale, la cui forza propulsiva è “l’innesto del capitalismo tecnologico billionario sul tronco reazionario del trumpismo, generando un nuovo fenomeno culturale e politico che segnerà questa stagione: la tech right come l’ha chiamata Elon Musk.”
E’ un fenomeno del quale si è dovuto occupare il presidente Mattarella nel suo discorso di Marsiglia, indicando tra i nuovi pericoli che la democrazia deve affrontare i “neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari a cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche.”
Queste cose Carlo Iannello, nella sua veste di costituzionalista, non si limita a descriverle, a prenderne atto: come scrive nella prefazione Giancarlo Montedoro l’autore “scava sul duro terreno dei fatti per cercare di portarne alla luce la logica”, e la forza del libro sta nell’analisi storica, per capire in quali modi, seguendo quali strade, questi processi si sono formati e rafforzati nell’arco dell’ultimo quarantennio, sino agli esiti attuali.
Una ricerca rigorosa, per capire come sono riusciti i nuovi signori delle imprese monopolistiche, delle piattaforme web e dei fondi di investimento globali a restringere via via lo spazio dei poteri elettivi, prendendo come dice Sergio Marotta nella post-fazione, “decisioni elaborate nella sfera privata e che valgono per tutti nella sfera pubblica, perché si configurano come nuove normatività.”
Il problema numero uno studiato da Iannello è l’erosione dei poteri dello stato novecentesco: “la sola organizzazione politica in cui, a partire dal periodo liberale, si è svolto il confronto democratico e in cui si è sviluppato il costituzionalismo, ossia una teoria politica dei limiti al potere che ha stabilito un legame essenziale tra rappresentati e rappresentanti”.
Una mutilazione dei poteri rappresentativi che, nelle parole dell’autore ha “minato la possibilità stessa di realizzare politiche redistributive del reddito da parte dello Stato e indebolito il Welfare State, oramai non più in grado di assolvere i suoi compiti” proprio nel momento storico nel quale è massima “la precarizzazione del mondo del lavoro, lo smantellamento del settore industriale pubblico, il trasferimento della ricchezza collettiva nelle mani dei nuovi attori del mercato” secondo un trend che ha “accresciuto la povertà e concentrato la ricchezza in una misura che non si era mai vista nella storia pregressa del capitalismo industriale.”
Nel raccontare tutte queste cose, la forza del libro di Iannello – dedicato a Gerardo Marotta nell’anno del cinquantenario della fondazione dell’istituto Italiano per gli Studi Filosofici – sta molto nello stile che l’autore ha adottato, che è quello di un reportage fluente, non specialistico, che ti prende e ti conquista, fornendo nel contempo a studiosi e lettori desiderosi di approfondire un apparato bibliografico e critico imponente.
La possibile via d’uscita Iannello la indica nel capitolo finale del libro, programmaticamente titolato “In difesa dell’umano. Invertire l’ordine delle priorità: prima l’uomo poi l’economia”.
Per fare questo è necessario con estrema tenacia difendere le forme liberal-democratiche delle nostre istituzioni, che “permangono, nonostante i fini per la realizzazione dei quali tali forme erano state concepite siano stati sovvertiti.”
Secondo Iannello questa difesa è “il punto da cui riprendere il percorso interrotto, la base su cui iniziare il cammino di ricostruzione”, attraverso azioni quotidiane, individuali e collettive di riaffermazione dei diritti della persona, riprendendo senza paure il programma che la Costituzione del 1948 ha limpidamente segnato.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 6 febbraio 2025
La lettura delle 182 pagine della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul ricorso presentato da 34 cittadini e associazioni contro lo Stato italiano per le presunte inadempienze nell’affrontare la crisi della cosiddetta “Terra dei fuochi” richiama ciascuno di noi a ulteriori considerazioni e riflessioni su una questione difficile e complessa, che pareva uscita dal dibattito pubblico.
Diciamo subito che il lavoro svolto dai magistrati europei appare serio e approfondito, a partire – è importante sottolinearlo – da una base conoscitiva che è quella fornita dalle parti ricorrenti, nonché dalle istituzioni, amministrazioni ed enti chiamati in causa.
Il punto di arrivo è assai chiaro: la Corte ritiene lo Stato italiano responsabile di ritardi nell’affrontare con misure adeguate il fenomeno dello smaltimento e della combustione illegale di rifiuti in ampie aree della piana campana, non proteggendo adeguatamente in questo modo il diritto alla salute dei ricorrenti, e di tutti gli abitanti.
In particolare i ritardi riguardano la capacità di prevenzione e contrasto delle pratiche illegali di smaltimento; il completamento dell’impiantistica necessaria a una razionale gestione del ciclo dei rifiuti; il recupero dei siti compromessi e degradati a seguito degli sversamenti.
Per superare definitivamente questi problemi la Corte indica le misure che lo Stato italiano è chiamato ad attuare nel prossimo biennio, a cominciare da una strategia complessiva ed efficace di intervento, in grado di superare finalmente la frammentazione delle competenze istituzionali e degli approcci settoriali.
La Corte richiede che l’attuazione della strategia sia accompagnata dalla creazione di un sistema di monitoraggio indipendente delle misure messe in campo, e di una piattaforma informativa al servizio del pubblico per una comunicazione adeguata dei rischi, delle misure di protezione, e dell’avanzamento del programma di interventi.
C’è da dire che molto è stato fatto, e la sentenza ripercorre il lavoro che le istituzioni hanno svolto, soprattutto a partire dal decreto “Terra dei fuochi” del 2013, con il monitoraggio capillare dei suoli e delle produzioni agricole, che ha condotto a una doverosa riabilitazione dell’agricoltura della piana campana, che pure ha subito da questa vicenda un danno economico, sociale, reputazionale enorme e ingiustificato.
Ciò nonostante, i punti problematici che la Corte ritiene non superati sono legati ai ritardi nella realizzazione degli impianti di trattamento dei rifiuti urbani, in particolar modo quelli di compostaggio. e di quelli per la gestione dei rifiuti speciali, a cominciare da quelli prodotti dalle aziende manifatturiere e dall’edilizia.
L’altro nodo riguarda la lentezza con la quale procede il recupero dei siti contaminati e degradati a causa degli sversamenti, e qui la sentenza della Corte obbliga a una riflessione importante. Nella parte inziale della sentenza, la Corte dedica ampio spazio a quella che è stata definita “la madre di tutte le discariche”, la famigerata Resit di Giugliano, soffermandosi sui rischi ambientali inaccettabili e le condizioni di degrado di un sito assurto a simbolo dell’intera vicenda.
Quella che manca nella sentenza è l’altra parte della storia: la messa in sicurezza della Resit realizzata dal Commissario di governo alle discariche dell’area giuglianese, con un intervento rigoroso e sobrio di confinamento e impermeabilizzazione del corpo di discarica, di captazione del percolato e delle emissioni gassose, di restauro paesaggistico con alberi prati e arbusti. L’inaugurazione del parco verde nato al posto del disastro fu una mattinata commovente, con l’esposizione delle opere degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, gli aquiloni, e i murales di Jorit con i volti di Giancarlo Siani e Peppino Impastato.
Un’altra storia che manca nel dispositivo della sentenza è quella del frutteto di San Giuseppiello, a poche centinaia di metri dalla Resit, sei ettari di paradiso impiegati per anni per lo smaltimento di fanghi di conceria. Grazie a un progetto di ricerca LIFE della Federico II premiato dalla Commissione europea, l’area è diventata un bosco di 20mila pioppi, l’impianto di fitorisanamento dei suoli più importante della Campania, messo definitivamente in sicurezza impiegando le erbe e gli alberi appropriati, e visitato da più di 10mila studenti delle scuole pubbliche della Campania, per dimostrare ai ragazzi che il futuro esiste, gli ecosistemi e i paesaggi feriti possono essere riscattati.
La Commissione europea ha premiato queste due esperienze, come esempio di buone pratiche per il recupero degli ecosistemi e dei paesaggi della piana, con tecniche avanzate, sostenibili, in tempi e a costi contenuti. La domanda è perché questi approcci, a partire dal 2017, non siano stati riproposti per il recupero delle altre “terre di nessuno” ancora in attesa.
Di questa disattenzione hanno anzi profittato le forze che osteggiano qualunque ipotesi di riscatto e ritorno alla legalità, con una serie di raid vandalistici, dei quali questo giornale si è dovuto purtroppo a più riprese occupare. Nella strategia che la Corte europea chiede di mettere in campo, sono tutte cose che dovremo necessariamente riprendere e riconsiderare.
Antonio di Gennaro, La Repubblica ediz. Napoli 22 gennaio 2025
A distanza di due settimane dallo scatenarsi del fuoco, gli incendi di Los Angeles continuano ad occupare le prime pagine della stampa internazionale, ed è una cosa che ci riguarda da vicino.
Il bilancio per la città californiana è tra i più pesanti di sempre: 27 persone decedute, 15.500 ettari bruciati, 90.000 abitanti evacuati, 12.000 edifici distrutti, per un danno stimato intorno ai 150 miliardi di dollari.
Di fronte al disastro, l’urbanista Aaron Paley studioso della storia sociale della città, intervistato da Corine Lesnes per il quotidiano Le Monde, non usa mezzi termini: “Quello che sta per succedere al mondo intero è visibile sulla mappa della città… È la fine di un’era. Siamo a un punto di svolta. Quello che sta succedendo in questo momento qui a Los Angeles non è come un normale incendio. È come una guerra.”
Il fatto è che Los Angeles non è un posto come un altro, sotto molti punti di vista. In un suo articolo sul New York Times sui rischi del cambiamento climatico, Soumya Karlamangla ricorda innanzitutto come la California sia uno dei cinque posti nel mondo con un clima mediterraneo: gli altri sono il Cile centrale, l’Australia sud-occidentale, il Sud Africa, poi naturalmente il bacino del Mediterraneo, dove viviamo noi.
Si tratta ecosistemi assai particolari, che coprono solo il 2% della biosfera ma ospitano il 20% delle specie vegetali conosciute. La loro specificità è l’adattamento al fuoco: in queste terre l’inverno piovoso è seguito da una lunga estate arida, durante la quale l’incendio della macchia e della foresta sempreverde è un evento ordinario, anche al di là della presenza umana. Le comunità vegetali si sono adattate, con una serie singolare di meccanismi di ripresa post-incendio, tra i quali la germinazione dei semi, che avviene solo dopo che il seme è stato esposto ad alte temperature.
Queste cose le sappiamo da tempo ed è per questo che Oliver Wainwright può scrivere su The Guardian che gli incendi di L.A. sono stati “uno spettacolo scioccante e triste, ma anche del tutto prevedibile. La colpa è stata attribuita in vari modi alla cattiva gestione dell’acqua e ai tagli al budget del dipartimento antincendio, ma poco si sarebbe potuto fare per fermare questi incendi. Dopo un secolo di sviluppo urbano sbagliato e di flagrante disprezzo per il cambiamento climatico, era solo una questione di quando si sarebbero accesi.”
L’incendio più esteso ha riguardato il quartiere residenziale di Palisades, con le abitazioni monofamiliari disperse nella vegetazione – un miscuglio architettonico mozzafiato di edifici modernisti, Beaux-Arts, Spanish Revival, Craftsman, Art Deco, vittoriani, postmoderni e contemporanei – sottovalutando completamente il fatto che “le cose che rendono così attraenti le case da sogno di questa città baciata dal sole – paesaggi lussureggianti, pittoresche costruzioni in legno, terreni rialzati e stradine strette e tortuose – sono le stesse che le rendono così infiammabili. Creano inferni ardenti che, come abbiamo visto, sono tragicamente difficili da estinguere.”
Insomma, quella che è andata a fuoco è una sterminata dispersione insediativa, tutta autorizzata e incentivata, proprio all’interno della “fire belt” la cintura verde di protezione contro il fuoco, quella che nel 1930 Frederick Law Olmsted Jr, progettista del sistema dei parchi statali della California, proponeva, in un piano poi dimenticato in un cassetto, fosse preservata per questioni di sicurezza come parco pubblico.
“Certo, il rischio naturale esiste” conclude Audrey Garric su Le Monde dello scorso 16 gennaio “ma sono le scelte di urbanizzazione, di pianificazione del territorio e di politiche pubbliche, e il contesto socio-economico che lo trasformano in catastrofe. L’esposizione e la vulnerabilità derivano da decisioni umane. Sotto l’effetto della pressione demografica, le autorità di Los Angeles hanno costruito massicciamente in aree soggette a incendi, con case costruite ai margini della foresta e spesso con impalcatura in legno.”
Fatte le debite proporzioni e distinzioni – la Grande Los Angeles è un sistema metropolitano grande come metà Campania, il solo incendio del quartiere di Palisades copre una superficie di 10.000 ettari, come se fosse andato in fumo l’85% dell’intera città di Napoli – quello che è successo in California riguarda anche noi. Nel Mediterraneo di casa nostra l’ultimo momento drammatico, dal Portogallo alla Grecia, è stato l’agosto 2017, ce la vedemmo brutta, con le pinete del Vesuvio in fiamme, in Campania in quell’anno bruciarono 14.000 ettari. Per il resto la diagnosi, la radice del problema è la stessa: il mosaico disordinato e incontrollato di città, boschi e campagne, che ha origine certo diversa dai quartieri esclusivi di Los Angeles, ma è ugualmente, dannatamente pericoloso.
Tutti insieme, gli articoli pubblicati sull’edizione napoletana di Repubblica dal luglio 2023 ad oggi. Come un diario. Tra le altre cose, i due reportage scritti con Giuseppe Guida dopo la pubblicazione di “Sette pezzi facili”. Se il librino del 2022, scritto durante la pandemia, si muoveva tutto dentro i confini della città, questa volta il viaggio è nella grande area metropolitana, la pianura scombinata, e poi Caivano. Ci sono alcune pagine che è stato più difficile scrivere, il saluto a Pio Russo Krauss che ci ha lasciati lo scorso mese di agosto, una persona importante per molti di noi, per la città, un fratello.
La città diseguale
Antonio di Gennaro, 9 novembre 2024
Ce la farà la città a reggere il boom turistico? I numeri sono importanti: 140mila sono i turisti che, stando alle stime rese pubbliche, hanno scelto Napoli per il ponte di Ognissanti (per inciso, a Firenze sono stati 480.000): è come se in quei giorni la popolazione urbana fosse cresciuta del 15%; come se una città come Rimini avesse deciso, in blocco, di venire a stare un po’ da noi.
I numeri sono importanti, soprattutto per il fatto che il carico non è equamente distribuito, grava in buona parte sul centro storico, già congestionato di suo, mandando in sofferenza i funzionamenti urbani e la gracile rete dei servizi. È evidente, lo ripetono in molti, che la cosa va governata: senza una strategia, come già successo altrove, il turismo, che è solo una parte dell’economia di una città, finisce per consumare e trasformare la risorsa che lo ha generato.
Di gratificante, oltre al fatturato, c’è l’interesse, l’attrattiva, il soft power che la città oggi è in grado di esercitare, e pure è stato evidenziato da molti come questa narrazione positiva rischi di fare da coperta ai problemi, che rimangono crudi e irrisolti al di sotto.
È vero, non dobbiamo aver paura dei cambiamenti, e il successo turistico un effetto sicuramente positivo può averlo, quello di costringerci finalmente a definire una strategia, a tracciare una traiettoria deliberata per la Napoli che immaginiamo. Partendo dall’aspetto che in questo momento, ci piaccia o no, ci definisce di più, che è la disparità di condizioni di vita tra le persone e i territori che tutti insieme compongono la città.
Tra le grandi città italiane non c’è alcun dubbio che Napoli sia quella dove le distanze e le diseguaglianze sono maggiori. L’alleanza che si è formata sul campo tra ciò che rimane della scuola pubblica, il terzo settore e la Chiesa ha aiutato sino ad ora a fronteggiare l’emergenza delle innumerevoli povertà (abitativa, economica, educativa, sanitaria, di servizi e spazi collettivi), supplendo in qualche modo alla gracilità delle politiche e delle strutture pubbliche, ma ora questo non basta più, la guerra dei quindicenni armati è lì a ricordarcelo.
Se non agiamo sulle diseguaglianze, quartiere per quartiere, ogni politica di rilancio economico della città è destinata a fallire. I ragazzi continueranno ad andar via, la città a svuotarsi delle sue energie migliori. I tempi delle grandi trasformazioni che sono state avviate, a cominciare da Bagnoli, sono ancora lunghi e incerti: senza un pensiero che li tenga insieme, senza una maglia di politiche diffuse che interessi l’intero tessuto cittadino, quello che rimane è un parco progetti di grandi opere che, come in passato, non ce la fanno a cambiare la vita delle persone.
Dobbiamo lavorare sulle distanze che ci separano. Lasciando pure a Greta Cool, la diva decadente di Parthenope, nel suo universo onirico, tutta la libertà di disquisire sulle tare insanabili del nostro carattere collettivo: noi abbiamo un altro lavoro da fare, maledettamente più pratico e urgente.
Una vita dalla parte degli ultimi
Antonio di Gennaro, 17 agosto 2024
Ci ha lasciati d’improvviso Pio Russo Krauss, una malattia crudele se l’è portato via in poche settimane. Medico pediatra valente, una vita nella sanità pubblica al servizio dei piccoli, degli ultimi, degli esclusi. Un percorso lungo, su tanti fronti diversi, iniziato da ragazzo nei primi anni ’70, nel movimento cattolico, poi in quello delle comunità cristiane di base. Ma Pio è stato anche pioniere a Napoli della cultura ambientalista e pacifista, animatore cocciuto e instancabile di innumerevoli iniziative e battaglie in campo medico, culturale, sociale.
Per molti di noi è stato il fratello maggiore, e non era questione d’età: c’entra invece la personalità solida, la serietà, il lavoro di preparazione e studio che metteva in tutte le sue cose, senza fanatismi, vagliando con pazienza problemi e situazioni, alla luce della ragione, della fiducia nella persona, della responsabilità indefettibile verso gli ultimi che gli veniva dal Vangelo.
Alimentava tutto il suo amore per la vita, la musica, la letteratura: la passione per il cinema la mia generazione l’ha coltivata al cineforum del Centro Culturale Giovanile che lui ha diretto per un decennio. E poi la passione per la natura, le lunghe, indimenticabili escursioni in montagna, la sua conoscenza della sentieristica era vasta e precisa, con lui non ti perdevi mai.
È riuscito a tenere insieme tanti mondi diversi. Nel suo messaggio di commiato pubblicato in rete il giorno della fine ha scritto: “La vita ha senso se spesa per gli altri, per migliorare la società, per prendersi cura di chi è in difficoltà, per aiutare gli ultimi a sollevarsi.
La vita è bella. Godete delle bellezze della natura, dell’arte, della compagnia di chi vi vuole bene. Il denaro dà la felicità solo a chi ne ha poco, ma molto spesso può rovinare l’esistenza a tutti gli altri. Non affannatevi per esso e siate generosi con chi è povero, molto generosi, ma con intelligenza per aiutarli efficacemente.
Non credete a chi vi offre spiegazioni semplici dei problemi della nostra società (e non solo di essa), a chi propone soluzioni facili, a chi promette troppo: la realtà è complessa e difficile da cambiare, ma cambia e noi possiamo indirizzarla in un verso o in un altro.”
In questo momento di dolore ci stringiamo a Gigliola, la compagna di una vita, alle tre figlie Irene, Chiara e Giovanna che sono state il suo amore e il suo orgoglio. La città gli deve molto, è stata un posto migliore e più umano perché c’era lui, e anche un po’ più giusto. Che la terra ti sia lieve.
Ricostruire Ischia partendo dal paesaggio
Antonio di Gennaro, 9 luglio 2024
Dei tre gioielli del Golfo è Ischia, l’isola verde, per molti aspetti l’ecosistema più fragile, una storia lunga e dolorosa di sismi e dissesti ricorrenti nei secoli, sino a quelli più recenti, il terremoto del 2017, poi le frane del 2022: la vita di tre comuni – Casamicciola Terme, Lacco Ameno e Forio – scossa ancora una volta alle radici.
Per la ricostruzione questa volta, vista l’ampiezza dell’area interessata, e la complessità dei problemi da affrontare, c’è voluta una legge dello Stato, con la scelta opportuna di assegnare a un piano unitario la definizione degli interventi sul patrimonio distrutto, lesionato, a rischio, affrontando in maniera integrata e non più settoriale gli aspetti urbanistici, i rischi ambientali, il paesaggio.
Un piano di ricostruzione che ha quindi caratteristiche nuove rispetto alla disciplina precedente, che nasce dal dialogo necessario e dal lavoro comune tra le diverse competenze istituzionali, i livelli di governo, i centri di competenza e il mondo della ricerca.
Uno dei risultati importanti di questa collaborazione è l’accordo siglato dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli, e l’Assessorato al Governo del Territorio e all’Urbanistica della Regione Campania, sulla nuova disciplina paesaggistica per l’Isola d’Ischia, il nuovo quadro di riferimento cui il piano di ricostruzione è chiamato a conformarsi.
Si tratta di un lavoro fondamentale, tenuto conto del fatto che il territorio dell’isola è interamente sottoposto a tutela: un paesaggio unitario che va dal crinale dell’Epomeo al mare, passando per i boschi, i terrazzamenti agricoli, i pezzi di città storica, sino alle bellezze della fascia costiera, non tralasciando naturalmente gli insediamenti recenti, cresciuti troppo e male in un sessantennio di governo a bassa intensità.
La disciplina messa a punto da Soprintendenza e Regione è precisa e rigorosa, e ha per oggetto, una ad una, tutte le diverse componenti di questo mosaico paesaggistico complesso, dettagliatamente cartografate, con la definizione chiara degli usi non ammissibili e di quelli ammissibili a condizione, con l’obiettivo di garantire la tutela e la conservazione di ciascun bene – boschi, terrazzamenti, città storica, fascia costiera – ma anche di definire le modalità concrete per la loro gestione attiva, cura, manutenzione, messa in sicurezza.
Gli obiettivi sono maledettamente concreti: rigenerare pienamente la capacità protettiva dei boschi sofferenti dell’Epomeo, dopo un sessantennio di abbandono; curare e ripristinare i terrazzamenti agricoli tradizionali che sono la vera matrice della civiltà millenaria dell’Isola; conservare forma e identità della città storica; rispettare gelosamente il suolo fertile che rimane, e poi quel bene primario per l’economia dell’Isola che è lo straordinario sistema costiero, considerato nel suo insieme.
E’ il metodo che si sta impiegando per redigere l’intero Piano paesaggistico regionale, del quale il protocollo sottoscritto per Ischia costituisce in qualche modo un’anticipazione, con l’obiettivo di fornire da subito al Piano di ricostruzione, tenuto conto dell’impellenza di legge, un riferimento normativo che ne garantisca piena efficacia e coerenza, un percorso e tempi celeri di attuazione.
In una storia dolorosa, la notizia buona è il fatto che le istituzioni stiano lavorando insieme, impiegando per una volta le rispettive competenze come strumenti di soluzione, piuttosto che come elementi di contesa. La ricostruzione questa volta parte dal paesaggio, dalla consapevolezza della nostra storia, della ricchezza e fragilità della terra che abitiamo, non è cosa da poco.
La collina e noi
Antonio di Gennaro, 21 giugno 2024
Giovedì mattina ore sei. Dallo svincolo rampante del Vomero la collina non si vede più, c’è una luce buia d’afa nuvole e fumo che copre questo pezzo di città, dietro la cortina il sole è un disco pallido. Continuando sulla perimetrale di Soccavo l’odore è acre, la pioggia di cenere ha coperto tutto, colonne di fumo s’alzano dalle praterie carbonizzate, ma lingue vivide di fuoco guizzano ancora in alto tra i lecci e gli olmi, nei lembi di bosco dei valloni che scendono dai Camaldolilli. E’ l’alba della prima notte tropicale dell’anno, il termometro segna già 25 gradi, chi ha agito lo ha fatto con cognizione
L’incendio è stato appiccato nella giornata di mercoledì, bisognerà capire bene quando, i punti d’innesco, localizzati ad arte, sono stati individuati. Le operazioni di spegnimento con le squadre a terra e i mezzi aerei, sono iniziate con qualche difficoltà, continuate fino a che c’è stata luce, poi col buio gli aerei si sono dovuti posare, una norma nazionale non ne consente l’impiego notturno, gli uomini a terra sono rimasti a presidio delle abitazioni, l’incendio però ha potuto estendersi per l’intero versante, e sembrava domato infine con la ripresa dei voli nella mattinata di giovedì, anche se gli elicotteri hanno ancora dovuto levarsi nel pomeriggio di ieri per focolai ancora attivi sul versante di Pianura.
Il bilancio ad oggi è che il mosaico di ecosistemi verdi sul versante collinare che guarda Soccavo, un ricamo di praterie, macchie, garighe, boschi misti s’è bruciato su quasi ottanta ettari, a fuoco anche alcuni vigneti di pregio, è come se il Parco di Capodimonte fosse andato in fumo per due terzi.
Stiamo parlando di pezzi di paesaggio importanti della città, sul versante bruciato riemerge a tratti la trama dei ciglionamenti medioevali che è ancora presente, nascosta dalla prateria, dopo che negli anni sessanta l’agricoltura eroica ha abbandonato queste terre cariche di storia. Intanto, negli impluvi spogliati della vegetazione, l’acqua lanciata per lo spegnimento ha già solcato il suolo fragile, un lavoro erosivo che le piogge nel tempo completeranno.
Sono pezzi maltrattati della collina che continua a vivere seppur incastrata nella città, una miniera sorprendente di biodiversità, suolo ancora vivo che nonostante l’incuria continua a lavorare per noi, in silenzio, producendo i servizi ecologici necessari alla città per funzionare: mitigazione del microclima urbano, assorbimento della CO2 e del particolato, infiltrazione dell’acqua, produzione agricola di prossimità, habitat di vita di una comunità sorprendente di organismi. Tutti servizi che, oltre al mantenimento della vita, partecipano di fatto con un loro preciso valore monetario all’economia della città, anche se ci ostiniamo a non capirlo.
Di fronte a eventi come quello di mercoledì la città deve decidere che farsene di questo capitale naturale. L’incendio questa macchina verde l’ha colpita, azzerata, ridotta a una landa fumante su una superficie pari a 112 campi di calcio. Prima di pensare alla moda della nuova forestazione urbana, bisognerebbe impegnarsi per curare la natura che abbiamo già, e a metterla in sicurezza, prima che vada a fuoco o ci frani addosso.
Le parole chiave sono prevenzione e rapidità d’intervento. I rischi si combattono vent’anni prima. Gli ecosistemi verdi in città devono essere curati, tenuti in ordine, monitorati. Bisogna investire attivamente su di essi, prima che le cose succedano. E quando accadono, essere pronti ad agire con tempestività: nella lotta attiva agli incendi, quelli di interfaccia col sistema urbano innanzitutto, il fattore tempo è tutto, se il fuoco prende piede la dinamica diventa incontrollabile. Tutte cose che devono entrare a far parte della programmazione e gestione ordinaria, nel tempo mutato nel quale ci troviamo a vivere concetti, come “eccezionale” o “emergenza” devono essere espulsi definitivamente dalla prassi e dal vocabolario.
Il villaggio della sicurezza a Bagnoli, subito
Antonio di Gennaro, 22 maggio 2024
Nella sequenza infinita degli annunci, c’è una cosa concreta da fare subito a Bagnoli, in risposta a questo momento difficile per la città e l’intera area flegrea, ed è un villaggio provvisorio per la sicurezza.
Nel racconto che hanno fatto i media di tutto il mondo, l’aspetto più penoso è il senso di precarietà, le immagini dei molti concittadini di Napoli, Pozzuoli, Bacoli e non solo, che hanno trascorso la notte all’aperto, o accampati in macchina, nel parcheggio dormitorio improvvisato fuori l’ex base Nato.
Evitando di incoraggiare allarmismi inutili, è evidente come nella fase di incertezza che stiamo vivendo, sia comunque utile e doveroso prevedere ricoveri provvisori per le persone e le famiglie che nei momenti di maggiore attività sismica non si sentano sicuri all’interno delle mura domestiche.
Ieri su queste pagine l’antropologo Giovanni Gugg ha spiegato con chiarezza come sia difficile e importante ricostruire nella lunga durata un rapporto consapevole con queste terre che si muovono, che pure abitiamo da millenni. E’ una lezione che non è acquisita per sempre: l’esperienza vissuta negli anni ’70 e ‘80, per molti versi ben più difficile e drammatica di questa, purtroppo non ci viene in soccorso, le fasce giovani non l’hanno conosciuta, ed allora dobbiamo ripartire da zero.
Gli esperti ci dicono che lo sciame sismico, che tanto scuote la nostra psiche, contiene invece un aspetto di sicurezza, è un’energia che il sistema dinamico libera gradatamente, evitando accumuli di tensione pericolosi, in una successione di eventi la cui magnitudo è ritenuta sopportabile dal patrimonio edilizio che abitiamo.
Ma tutto questo alle persone non basta, e la domanda generale è quella di informazioni puntuali e adeguate sulla vulnerabilità, non della città nel suo complesso, ma del condominio, dell’appartamento nel quale ciascuno di noi vive.
Nel frattempo che questo accada, città importanti come Napoli e Pozzuoli devono poter disporre di spazi provvisori di accoglienza e ospitalità per i momenti più acuti, e Napoli questo spazio ce l’ha, nella fascia di quindici ettari che costeggia via Diocleziano, passato il ponte ferroviario e l’auditorium. E’ spazio aperto, sicuro, vicino alla città, nel cuore di uno dei quartieri che più sta soffrendo la crisi, ben servito dalla rete stradale e del ferro.
Si tratterebbe di un uso provvisorio, certo, e sarebbe anche finalmente il modo di far rientrare pienamente queste aree sequestrate da un trentennio di bonifica inutile, costosa, senza fine, nel circuito urbano, nella vita pulsante della città, ora che veramente ne abbiamo bisogno.
Dietro le quinte a Caivano
Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, 2 giugno 2024
C’è un blocco in autostrada, e allora dopo l’aeroporto prendiamo la vecchia statale sannitica che divide San Pietro a Patierno da Secondigliano, ora è diventata il corso della sterminata città senza nome che si è formata da sola dopo il terremoto dell’80, della quale la statale attraversa ad uno ad uno i quartieri: Casavatore, Casoria, Afragola, Cardito. Dopo nove chilometri e pochi minuti è il turno di Caivano, corso Umberto I è una bella strada di centro storico, con le masserie e le dimore padronali restaurate. Giriamo per via de Nicola, ancora poco, a ovest, il Parco Verde è l’ultimo avamposto della metropoli napoletana, sulle sponde del fiume residuo di campi agricoli che la separa, non si ancora per quanto, dall’altro pezzo di conurbazione, quella aversana.
All’ingresso del “parco” troviamo ad aspettarci Bruno Mazza, in bicicletta, assieme a Sobir, un ragazzino di colore di dodici anni tutt’occhi, sveglio e silenzioso. La famiglia di Bruno è venuta qui nell’86 dai container della Sanità, per lui una giovinezza sbagliata, il carcere, poi il cambiamento di vita, la decisione nel 2008 di fondare un’associazione, “Un’infanzia da vivere”, per aiutare i piccoli come Sobir a non subire lo stesso destino.
Il giorno prima si è tenuto qui lo show governativo, quello delle parolacce, ma dietro le quinte, spente luci e telecamere, nessuna traccia è rimasta, con Bruno e Sobir percorriamo il quartiere viale per viale, tra i prefabbricati pesanti lo stato di abbandono è totale, le aiuole sono muri di erbacce altissime e rifiuti, le botteghe chiuse, in rovina, una signora dalla macchina ci chiede gridando quando vengono a ripristinare l’illuminazione nel suo viale, sono al buio da quindici giorni.
“Quello che il quartiere continua inutilmente a chiedere” ci dice Bruno “è semplicemente un minimo di cura, di manutenzione, presidio, attenzione quotidiana, pulizia, spazi decenti e sicuri da vivere e abitare”. Ed è proprio quello che nel suo piccolo l’associazione cerca di fare da quasi vent’anni.
Arriviamo ai campetti di calcio che un “Infanzia da vivere” ha realizzato e gestisce in Via Rosa – qui i nomi dei viali sono esclusivamente floreali – con un finanziamento della Fondazione Con il Sud, che fin dall’inizio ha creduto in questa storia. All’ombra di un grande pioppo c’è un casotto aggraziato, un orto, i campi e le attrezzature sono perfetti, arriva un gruppo di ragazzini col pallone, salutano Bruno, si vede che c’è educazione e rispetto per i luoghi e le persone.
Un’altra oasi come questa è a trecento metri da qui, in via Tulipano, un parco giochi per i piccoli da 0 a 6 anni, si chiama “Ohana”, una parola hawaiana che significa “famiglia”, sempre realizzata con l’aiuto della Fondazione Con il Sud, cento bambini vengono a giocarci ogni giorno.
Percorriamo viale delle Magnolie sino alla chiesa di San Paolo Apostolo, davanti la parrocchia l’associazione di Bruno ha adottato un’aiuola triangolare, un’altra piccola oasi in mezzo allo squallore, è dedicata alla lotta sulle violenza sulle donne, c’è una panchina rossa, la sagoma grande di una scarpetta rossa sul prato verde ben tosato.
Addossata alla parrocchia c’è Villa Andersen, un’area verde attrezzata per l’infanzia grande quasi un ettaro, era prevista nel progetto urbanistico che ha generato Parco Verde, ora è in stato di sfascio totale. Con Bruno e Sabir ci inoltriamo cauti nella vegetazione fitta che ha divelto pavimenti, tombini, impianti, distrutto scivoli e giostrine, in rovina anche il campo di calcio.
Trent’anni fa l’accesso dal lato della parrocchia fu chiuso, ci pensarono i capi-famiglia della droga a riaprire l’area facendo breccia nel muro di cinta sull’altro lato del giardino, da allora questo è stato il luogo del consumo e delle morti per overdose. Dal balcone di uno dei prefabbricati affacciato sulla villa una donna quando ci vede inizia a gridare, dalla vegetazione incolta le entra in casa ogni genere di volatile, chiede quando faranno finalmente pulizia.
“La rinascita di Caivano doveva partire da qui” ci dice Bruno “gli abitanti e le associazioni del quartiere lo avevano chiesto con forza al governo, dei 1300 bambini del rione 500 vivono intorno a Villa Andersen, a contatto quotidiano diretto con questa bruttezza”. Restituire finalmente la villa a condizioni quotidiane di legalità sicurezza e decoro sarebbe davvero per tutto il quartiere il segno autentico della svolta.
Eppure inspiegabilmente quest’area che è il vero epicentro dell’illegalità e del dolore, non è entrata negli ultimi programmi governativi, sintetizzati nel cosiddetto Decreto Caivano. L’intervento più reclamizzato è invece quello che riguarda il centro sportivo comunale e la piscina oggi denominata “Pino Daniele”, a mezzo chilometro da qui, oltre la strada perimetrale a scorrimento veloce, ben distante dal quartiere e dalla vita di ogni giorno. Per gli abitanti del rione certamente non la priorità.
Alla fine quello che si percepisce è il carattere, neppure tanto celato, dell’intervento governativo per Caivano: l’idea di una politica esemplare e simbolica, più che risolutiva dei problemi; paternalistica (sappiamo noi cos’è meglio per te, tu plaudi e ringrazia); emergenziale, con i commissari e i poteri straordinari che vengono e vanno senza incidere sul contesto: al comune di Caivano nell’ultimo ventennio i commissari straordinari sono stati 8, l’ordinarietà è stata la vera eccezione.
Il risultato è la totale mancanza di ascolto, e l’esclusione dal programma governativo di ogni tipo di contributo, ideale, organizzativo, gestionale, da parte della rete di associazioni del quartiere, che pure una visione e una capacità operativa in tutti questi anni hanno dimostrato di possedere.
Nei locali in viale Margherita dove ha sede l’associazione con Bruno proviamo a buttar giù una mappa orientativa della rete sociale attiva a Caivano. Accanto a “Infanzia da vivere”, in un rapporto di stretta collaborazione, c’è la cooperativa sociale “Nessuno resti solo”, nata per iniziativa di Cristina Giordano e di trenta giovani mamme del quartiere. Un ruolo decisivo, come si è detto, lo ha avuto la Fondazione Con il Sud con il presidente Stefano Consiglio; un sostegno importante è venuto da “Impresa Sociale” diretta da Marco Rossi Doria. Dalla collaborazione con il “Centro di servizio per il volontariato di Napoli” (CSV) è nato un corso per la formazione di 10 volontari civili da impiegare nei programmi per il quartiere; quella con il “Banco Alimentare Campania” consente gli aiuti settimanali alle famiglie in difficoltà. Tra le aziende private che hanno sostenuto il processo c’è la Farvima spa, importante realtà nel campo farmaceutico.
Se la priorità è la qualità e la sicurezza degli spazi di vita quotidiana nel quartiere il passo successivo per le istituzioni, una volta superata l’ottica emergenziale che nulla ha prodotto, sarà mettere mano a questa sorta di terra di mezzo nella quale realtà come il Parco verde si trovano disperse, riannodando i fili di un territorio smembrato, ma straordinariamente ricco di risorse.
«Quando nei primi mesi del 1982 ci recammo sull’area del progetto per il primo sopralluogo ci trovammo di fronte ad una sterminata piana agricola, inframmezzata da lunghi filari di vite maritata al pioppo», così ci racconta Francesco Bruno, allora docente di Progettazione Architettonica alla Facoltà di Architettura di Napoli e autore del progetto planivolumetrico dell’intero insediamento, ben disegnato da un punto di vista tecnico e allineato ai migliori canoni del tardo modernismo allora in voga e dimensionato per circa 750 alloggi. Gli edifici del Parco Verde furono progettati dall’architetto aversano Arturo Pozzi, per la realizzazione fu utilizzato un sistema di prefabbricazione pesante, stile città sovietica anni ’70, con prestazioni energetiche e termiche pari a zero.
Ancora oggi, se alzi lo sguardo, ti accorgi di come la radice rurale dell’antico casale sia ancora viva, il Parco Verde si affaccia su un’area agricola immensa, oltre duemila ettari che sono parte della grande pianura dei Regi Lagni. Qui si produce ancora un quarto della produzione nazionale di patate, e sono le più pregiate e richieste, al di là delle cose infondate che su questa agricoltura sono state dette.
Oltre i campi, superato il borgo antico di Pascarola, c’è un’area industriale tra le più importanti del Mezzogiorno e d’Italia. Ora è una sorta di repubblica autonoma, al check point quando chiediamo di entrare ci guardano con sospetto, all’interno tutto è ordine, con le grandi strade alberate, il caos e le sofferenze restano fuori del recinto.
Un chilometro più avanti, superata l’Alta velocità, l’altro grande polo industriale, orafo, della Coca Cola, dove la Olivetti negli anni ’70 impiantò su progetto di Marco Zanuso ed Eduardo Vittoria uno stabilimento avanzatissimo per la produzione di macchine computazionali, dando ancora vita alla visione del suo fondatore, di una piena integrazione tra urbs, civitas e produzione industriale.
È di una visione come questa che abbiamo ancora bisogno. La cosa da fare è trasformare senza indugio questa terra di mezzo in un grande parco agricolo e produttivo, riattivando le antiche strade interpoderali, lungo i tracciati della centuratio, rigenerando all’originaria funzione la canalizzazione storica dei Regi Lagni che innerva l’intera area, riaprendo i varchi che separano le aree produttive dal territorio intorno.
Superando anche le barriere mentali, che sono le più dure di tutte, perché Parco Verde non è una monade nel nulla. La distanza tra il quartiere e la stazione dell’alta velocità di Afragola è la stessa che intercorre tra la stazione Centrale di Napoli e il quartiere di Chiaia. Così come la distanza tra Caivano e Napoli è la medesima che passa tra l’Eur e i Parioli a Roma. Parco Verde è un pezzo di Napoli, popolato all’80% da cittadini che in origine risiedevano a Napoli, che però sentono di essere altrove, in una terra priva di riferimenti e coordinate, ma non è così.
Mentre percorri questo mondo complicato, ti chiedi come sia possibile, con queste risorse economiche e paesaggistiche, che a prevalere sia stata l’economia criminale e non quella industriale e agricola che sta proprio di fonte al Parco Verde; perché non si intravedano all’orizzonte grandi programmi di rigenerazione del territorio che mettano allo stesso tavolo tutti gli attori che popolano quest’area, con le proprie responsabilità, per ricomporre i pezzi della conurbazione, sostenere forme di sviluppo innovative, condivise, coraggiose; dare finalmente risposta alle urgenze dolorose di vita quotidiana e di futuro possibile che Bruno e Sabir ci hanno con semplicità mostrato e fatto conoscere.
L’azzardo Bagnoli
Antonio di Gennaro, 2 aprile 2024
L’articolo di Pasquale Tina pubblicato su queste pagine il giorno di Pasqua (“Napoli, la guerra dello stadio”) mette ordinatamente in fila tutte le cose che sappiamo intorno alla questione del nuovo stadio. Rispetto alle notizie dei giorni precedenti la novità riguarda l’avvenuto incontro del presidente e proprietario del Calcio Napoli Aurelio De Laurentis con Bernardo Mattarella, presidente di Invitalia, la società pubblica alla quale la legge “Sblocca Italia” del 2014 ha assegnato la proprietà dei suoli dell’area ex Ilva di Bagnoli.
Dall’incontro sarebbe scaturito un via libero preventivo di Invitalia alla proposta di De Laurentiis di realizzare proprio a Bagnoli il nuovo stadio da 60mila spettatori, come parte di un più ampio complesso sportivo e ricettivo, con l’indicazione di una possibile data di inaugurazione della struttura, nel luglio 2027.
Di segno opposto l’opinione del sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, che è anche commissario straordinario di governo per il risanamento di Bagnoli, secondo il quale l’opzione realistica consiste nell’adeguamento dello stadio Maradona, essendo la proposta del nuovo stadio a Bagnoli non praticabile, a causa della tempistica (il completamento della bonifica richiederà un periodo di tempo non inferiore ai 3-5 anni), e per il fatto che la proprietà dei suoli è di Invitalia, con la necessità quindi di un acquisto preventivo delle aree da parte di De Laurentiis.
Sul restyling del Maradona il sindaco ha ragione da vendere. Sta di fatto che Invitalia nella vicenda di Bagnoli non è un soggetto qualsiasi, assommando i ruoli di soggetto attuatore della bonifica, oltre che di proprietaria dei suoli. L’apertura a De Laurentiis, se confermata, starebbe a indicare che i vertici di Invitalia ritengono le obiezioni del sindaco Manfredi in qualche modo superabili.
Ciò che colpisce in tutta questa vicenda è il completo prevalere delle questioni procedurali su quelle di merito. La disciplina urbanistica, che la Costituzione e le leggi italiane assegnano ancora agli enti di governo territoriale, in primis i comuni, e non ai proprietari delle aree (sia chiaro, Invitalia, per quanto società di intera proprietà pubblica, è un soggetto di diritto privato come gli altri), nonché il quadro complessivo dei vincoli, non consentono assolutamente la localizzazione a Bagnoli di un’attrezzatura del rango del nuovo stadio, e ha ragione allora Giuseppe Guida, nel suo intervento su queste pagine dell’11 marzo scorso, a derubricare la questione nell’ambito della patafisica.
Anche volendo prescindere da tutto questo, c’è una questione di buon senso grande quanto una casa, che dovrebbe sconsigliare la localizzazione di un nuovo stadio da 60.000 posti nel bel mezzo della zona rossa dei Campi Flegrei, istituita nel giugno 2016 dalla pianificazione nazionale di emergenza per il rischio vulcanico, che comprende l’intera piana di Bagnoli, assieme al promontorio di Posillipo.
Un’area nella quale, stando al sito del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile “… l’evacuazione preventiva è, in caso di allarme, l’unica misura di salvaguardia per la popolazione. In caso di eruzione, sarebbe infatti esposta al pericolo di invasione di flussi piroclastici che, per le loro elevate temperature e velocità, rappresentano il fenomeno più pericoloso per le persone.”
Il dibattito scientifico e istituzionale sull’evoluzione recente del rischio vulcanico e bradisismico nell’area flegrea, le preoccupazioni per l’incompletezza delle nostre conoscenze e capacità previsionali, oltre alla presa d’atto dell’insufficienza delle vie di fuga (a proposito, come si evacuano 60.000 persone dal cul de sac di Bagnoli?), hanno occupato fino a ieri pagine intere dei quotidiani. Come sia possibile rimuovere completamente la questione dal dibattito in corso sul nuovo stadio rimane uno dei misteri della mente umana.
Le vicende storiche che stiamo vivendo dovrebbero indurci invece a immaginare una strada nuova, sobria intelligente per Bagnoli e la zona occidentale, che metta insieme, a partire dai bisogni delle persone, le ragioni dell’economia e del paesaggio, con l’obiettivo di costruire una città più sicura e resiliente. Il nuovo piano urbanistico della città dovrebbe farsi carico di tutto questo, sempre ricordando che Napoli è un segmento di un sistema vulcanico ed ambientale più ampio, maledettamente problematico, ed è a questa scala vasta che le soluzioni ragionevoli vanno ricercate.
C’è un altro modo di dividere il paese
Antonio di Gennaro, 21 marzo 2024
Andiamo sempre più scoprendo in questi ultimi mesi che esiste un diverso modo di mandare in frantumi l’unità del paese, oltre all’autonomia differenziata di Calderoli, ed è l’approccio con il quale l’attuale governo sta trattando partite importanti, a partire da quelle che riguardano l’uso delle risorse finanziarie.
Le recenti modifiche apportate unilateralmente, senza spiegazioni, al Piano nazionale di recupero e resilienza, comporteranno il ridimensionamento di linee di investimento rilevanti, dalla rigenerazione urbana, agli asili, al dissesto idrogeologico. A farne spese saranno soprattutto le città del centro-sud.
Sui tagli alla sanità la levata di scudi è generale, coinvolgendo tutte le regioni, anche quelle governate dal centro-destra, costringendo la Corte dei conti a una denuncia chiara dell’abuso di potere nei confronti dei poteri locali.
Con la Campania la partita è se possibile ancora più aspra, con il mancato accordo sull’impiego delle risorse del Fondo di sviluppo e coesione, dal quale dipendono grandemente le politiche di sviluppo.
In merito all’aspro contenzioso in corso, le dichiarazioni del ministro Fitto a margine di un recente convegno organizzato dalla CGIL sono rivelatrici delle motivazioni alla base dell’atteggiamento governativo: “Il Governo non ha alcun obbligo previsto in nessuna legge di dare le risorse alle 20 Regioni italiane. È una scelta del Governo dare risorse alle Regioni italiane” ha dichiarato il ministro.
Inutile dire che una simile affermazione cozza contro una manciata di articoli della carta costituzionale: le risorse di cui parla il ministro non sono patrimonio del governo ma della repubblica, che è composta, oltre che dallo stato, dalle regioni, le città metropolitane, le province e i comuni, che cooperano secondo il principio di sussidiarietà, cioè partendo dai livelli amministrativi più prossimi alla vita dei cittadini.
Le Relazioni sui Conti Pubblici Territoriali pubblicate dall’Agenzia per la Coesione Territoriale, l’ultima è relativa al 2021, hanno confermato lo squilibrio nella distribuzione delle risorse tra le diverse aree del paese: nell’ultimo ventennio il Mezzogiorno, con il 35 per cento di popolazione, ha percepito mediamente il 27 per cento della spesa pubblica ordinaria. L’obiettivo fissato per legge nel 2017, di riservare al Sud almeno il 34% delle risorse, è stato vistosamente mancato.
Alla fine, stando sempre alle Relazioni dell’Agenzia per la Coesione, nel ventennio considerato sono mancate al Sud risorse per un importo stimabile intorno ai 2,6 miliardi l’anno. A riequilibrare in parte le cose sono intervenute le risorse integrative, in primis i fondi europei, e i fondi di programmazione nazionali, come l’FSC, che non costituiscono più a questo punto risorse aggiuntive, erogate al Mezzogiorno per recuperare il ritardo di sviluppo, ma risorse sostitutive di una quota della spesa pubblica ordinaria che manca.
Stando così le cose, l’erogazione di risorse come quelle del Fondo di sviluppo e coesione non può dipendere da scelte unilaterali e discrezionali del governo, ma da una seria e leale cooperazione istituzionale, nel rispetto degli obiettivi di coesione che la costituzione e le leggi ordinarie ancora impongono. A soffrirne le conseguenze, qualora ciò non avvenisse, sarebbero solo le persone, oltre a ciò che rimane del senso di giustizia e di unità del paese.
Se dieci anni vi sembran pochi
Antonio di Gennaro, 3 febbraio 2024
Il prossimo 12 di settembre, appuntiamoci la data, è una ricorrenza importante, si celebra il decennale del decreto Sblocca-Italia, il provvedimento che doveva mettere fine alle lungaggini e inefficienze che hanno segnato la storia complicata del recupero alla città, dopo un secolo di siderurgia, della piana e del litorale Bagnoli.
Dieci anni sono tanti, siamo passati dal breve al medio termine, basterebbe questo per esprimere una valutazione di efficacia: la verità, dopo un decennio, è che siamo ancora ai preliminari, per il completamento degli interventi di bonifica, le opere di urbanizzazione primaria e gli espropri del waterfront occorreranno 1200 milioni di euro, i fondi per la bonifica a terra ci sarebbero, mentre mancano all’appello 650 milioni per i fondali e la colmata.
Quella della bonifica dei fondali è veramente una storia curiosa. Studi autorevoli della Federico II hanno accertato come lo stato di salute dei fondali del litorale industriale di Bagnoli non sia dissimile da quello del litorale industriale di San Giovanni a est, e da quello del litorale industriale di Pozzuoli a ovest. E’ l’effetto di cent’anni di un sistema industriale costiero diffuso sull’ecosistema marino delle due baie sulle quali si affaccia la città. Sono situazioni che in altri stati con trascorsi simili si affrontano con pragmatismo, lavorando seriamente sul monitoraggio, l’adattamento, la valutazione rigorosa delle condizioni effettive di rischio.
Da noi, quello che si sta preparando invece, è il provvedimento esemplare, un po’ sullo stile di Caivano: interventi localizzati e massicci, non replicabili per costo e intensità a situazioni simili, prossime, che pure ne avrebbero bisogno, perché l’obiettivo è soprattutto simbolico: rappresentare, una capacità d’azione risolutiva, una volta per tutte, dei poteri pubblici, con un carico d’enfasi e prosopopea alla lunga difficilmente digeribile.
Un intervento comunque irragionevole e controverso, tenuto conto dell’impatto devastante sull’ecosistema marino del dragaggio dei fondali, e dei problemi non risolvibili legati al destino delle enormi quantità di fanghi che l’insensata e costosissima operazione produrrà.
Al di là delle valutazioni di efficacia, restano intatti, a distanza di dieci anni dall’approvazione del decreto Sblocca Italia, i motivi fortissimi di perplessità sulla sua impostazione, e sulle procedure stabilite per il recupero dell’area siderurgica di Bagnoli.
Inutile girarci intorno: in un momento nel quale la città, come Costituzione prevede, sta definendo la sua nuova strategia, Bagnoli di fatto resta fuori, in una sorta di extraterritorialità, il suo destino essendo legato alle decisioni di una cabina di regia nella quale, da dieci anni, il Comune siede, privo di prerogative particolari, assieme allo Stato e agli altri enti territoriali, con un ruolo guida energicamente esercitato dal soggetto attuatore, Invitalia, che è anche proprietaria dei suoli.
Si tratta di una situazione veramente al limite: Invitalia è una società per azioni: per quanto interamente di proprietà dello Stato, è a tutti gli effetti un soggetto di diritto privato, al quale il decreto Sblocca Italia ha affidato come si è detto non solo la proprietà dei suoli, ma anche una preminenza di potere nel deciderne la disciplina. Si tratta di distorsioni alle quali altre legislazioni emergenziali ci avevano pure abituato, ma mai sino a tal punto.
Il risultato di questa situazione è il congelamento della visione futura di Bagnoli all’interno di uno schema urbanistico, quello del Piano di rigenerazione urbana partorito dalla cabina di regia, la cui attuabilità e rispondenza agli attuali bisogni della città restano francamente tutte da verificare.
Il tutto comunque condizionato ai risultati di un nuovo onerosissimo progetto di bonifica, che solo ora si accinge a partire, con cronoprogrammi ai quali l’esperienza non consente di dare molto credito, e che risponde ancora a burocratiche logiche tabellari, anziché a fondate e sobrie analisi di rischio, come si fa nelle altre parti del mondo.
Di fronte a questi ragionamenti il mantra di Invitalia è che “non è possibile fermare un treno in corsa”, ma è un’argomentazione che, alla vigilia del mesto decennale dello Sblocca Italia, risulta francamente logora.
Sforzandoci di guardare avanti, le riflessioni problematiche svolte dal sindaco Manfredi in Consiglio comunale, e nel recente incontro in Municipalità a Bagnoli, sulla fattibilità della rimozione della colmata, sono un segnale positivo, se indicatrici della volontà dell’amministrazione comunale, dopo un decennio, di riequilibrare opportunamente i pesi all’interno del processo decisionale per Bagnoli, proponendo un percorso realistico e credibile, ben integrato nella nuova visione di città “giusta, sostenibile e attrattiva” che il piano urbanistico si è impegnato a definire.
Dove finisce la pianura
Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, 18 dicembre 2023
La terra nera dov’erano le fragole e le piante alte di noce ora è un tracciato largo, polveroso, lo percorriamo per centinaia di metri, ai lati è una teoria ininterrotta di cantieri, le reti di metallo e plastica rossa segnano il dedalo dei lotti, il lavoro di uomini e macchine è febbrile, c’è di tutto, villette, case plurifamiliari, palazzine, in un trionfo spontaneo di stili, gusti, velleità, in questa città-strada che sta nascendo in fretta alla periferia di Parete, ai confini del nulla. Come mezzo secolo fa nelle periferie di Napoli, ora è qui, nei comuni della seconda corona tra il capoluogo e Caserta, che la fame di case chiede anarchicamente risposta, e la scena è la stessa.
In un posto dove già attrezzature, spazi pubblici e urbanizzazione primaria scarseggiano, questa nuova scacchiera di case sperdute nelle terre significa, nel giro di pochi mesi, qualche migliaio di abitanti in più: per un comune che ne conta 12.000, una cosa epocale. La domanda è chi pagherà poi, a cose fatte, il debito di standard e servizi essenziali, che è il parametro che trascina ancora questi luoghi al fondo della classifica di qualità della vita.
Come ci fosse una regia, questi momenti di trasformazione convulsa seguono un loro turno. Dopo l’esplosione di Giugliano, nel corso dell’ultimo ventennio è successo in centri come Trentola Ducenta, Orta di Atella, un comune per volta, dove si crea la combinazione giusta di fattori perché la reazione si scateni. Questi cicli locali rapidamente si compiono, la forma urbis va in frantumi, poi l’epicentro si sposta, il gioco a perdere dell’edilizia a debito passa di mano, mentre le carte comunque stanno a posto, anche grazie alle deroghe del “piano casa” che Berlusconi ha piazzato una quindicina di anni fa al centro della scena.
Sono cose che succedono nel cuore di Campania felix, le terre nere nate sulle ceneri flegree di quindicimila anni fa, i suoli agricoli più fertili della galassia. Il valore delle produzioni agricole è il più alto in Italia, Langhe e Chianti esclusi. Proprio a Parete, c’è la più importante produzione di fragole a scala nazionale, di una qualità eccelsa, la grande distribuzione europea fa a botte per assicurarsela. È un’industria verde che crea lavoro, reddito, esportazione, competenza, coesione sociale: una delle poche poste attive di un territorio in sofferenza.
E non è la sola. Non lontano da qui, incontriamo Francesco D’Amore, nella sua bella azienda in località Santa Maria, a Frignano. Francesco è un agronomo visionario, in collaborazione con il Mulino Caputo, una delle più antiche aziende che produce farine a Napoli, si è messo in testa di ricostruire, proprio qui, il paesaggio cerealicolo come lo vide Goethe, arrivando a Napoli da Roma, un pomeriggio di fine ‘700, coi campi di frumento a perdita d’occhio, nel disegno dei filari alti di vita maritata.
L’intuizione è importante, la guerra Russia-Ucraina ci ha fatto comprendere l’importanza strategica dei cereali, del grano, la necessità di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni di quest’oro bianco che è alla base della nostra gastronomia, storia, identità culturale. Così, sulle terre nere, Francesco sperimenta le varietà di frumento e grano duro adatte ai nuovi andamenti climatici, l’innovazione assoluta sono le varietà a semina primaverile, una vera rivoluzione. Tutte queste cose sono diventate un progetto di filiera innovativo, grazie a un finanziamento del ministero dell’agricoltura interesserà tremila ettari qui, in Campania e in altre regioni del Mezzogiorno.
Poi, nel centro storico di Frignano, la sede storica delle Cantine Magliulo è una sosta obbligata della memoria. L’asprinio che beviamo è di un’eleganza assoluta, perché come ha scritto Mario Soldati “non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio, nessuno…”. Raffaele Magliulo ci conduce giù, nella grotta scavata nel tufo grigio, sotto la dimora ottocentesca, dove il vino si affina, poi al podere dove si conservano i filari ad alberata, e l’emozione si ripete: dai ceppi secolari di vite, franchi di piede, si diramano a raggiera i tralci che si elevano fino a quindici metri, sul colonnato solenne dei pioppi. Sono monumenti verdi che raccontano 2.500 anni di storia, furono gli Etruschi a pensarli, ce n’erano 18.000 ettari ancora all’inizio degli anni ’70, oggi ne restano un paio di centinaia, grazie all’opera di custodi appassionati come Raffaele.
Nel viaggio ci accompagnano Gena Iodice e Tommaso Maglione, due interpreti importanti della nostra cultura gastronomica, sposati nella vita, lei è una chef apprezzatissima, che fa vivere la tradizione e la rinnova con intelligenza; Tommaso è un agronomo di esperienza e visione, ha organizzato nella piana una rete di aziende agricole, che lui segue, promuove, consiglia, per produzioni di alta qualità, che poi Gena elabora nelle sue ricette, alla “Tenuta Maglione”, nell’emozionante borgo settecentesco dei mulini, a Triflisco; e all’osteria storica “La Marchesella”, a Giugliano. E’ qui che ascoltiamo il racconto del loro lavoro, rapiti dal menù di Gena, il suo ripieno con scarole crude, capperi olive e noci, e gli spaghettoni con cacio pepe e baccalà, sono cose che non si dimenticano.
Ma è tempo di riprendere il cammino, e quello che avverti girando la pianura è il destino segnato di queste terre fertili, insieme all’imperativo ineludibile di rispettarle, se aspiriamo ancora a un futuro, ma è una cosa che manca, anche all’iniziativa pubblica. Basta andare alla stazione dell’Alta Velocità di Afragola, anche qui, una cattedrale nel nulla, non s’è capito perché, ci arrivi percorrendo poco più che una poderale, fino ai 4 ettari sterminati di parcheggio, tutta la fortezza avvolta da una rete divisoria, come fosse una base militare, senza uno straccio di inserimento, avverti il terrore del vuoto che l’attornia.
Il nulla attorno alla stazione non è un vuoto fisico. Anzi, i campi ancora coltivati che la bordeggiano sono un esperimento un po’ naif di landscape urbanism, di urbanistica rurale, ecologica, di paesaggio. Il vero vuoto attorno a questa stazione è il vuoto di regole, di terre affidate al sottobosco opaco dei passaggi di proprietà. È l’anomia. È un vuoto quindi che ribolle, magmatico, un vuoto di attesa, di un qualcosa che prima o poi dovrà verificarsi: al posto dei campi, nuovi parcheggi, piccoli e grandi hotel, resort, logistica, case. Ed è un vuoto di progetti da realizzare.
È per questo che per arrivare all’immaginifica opera di Zaha Hadid (che comunque, se la osservi da vicino, mostra già i suoi acciacchi, segno di un’italica scadente qualità esecutiva), devi uscire dalla statale e ficcarti sui tracciati di antiche strade campestri, oggi sbrigativamente asfaltate. Dalle terre in subbuglio di Parete la stazione dista venti minuti, da Giugliano poco più, attraverso il mitico Asse Mediano, segno viario dell’infrastrutturazione post-terremoto, oggi declassato a strada quasi urbana a servizio della dispersione insediativa tra Napoli e Caserta.
Luoghi che gravitano su Napoli, ma verso i quali Napoli volta le spalle. Di queste trasformazioni che incombono non si accorge l’urbanistica cittadina, ma nemmeno quella di area vasta, se il piano territoriale della Provincia di Caserta, che pure gli anticorpi e i dimensionamenti li aveva per contrastare queste cose, è stato messo sbrigativamente in soffitta, quello della Città metropolitana di Napoli è là da venire, col risultato che la pianificazione, quando c’è, resta miope, affidata ai soli comuni, ficcati nei loro confini amministrativi.
E invece i luoghi di questo racconto si vedono tutti, volendoli vedere: le villette international style di Parete per napoletani espulsi dal mercato immobiliare della loro città; i suoli in ibernazione attorno alla stazione dell’Alta Velocità. Persino le poche architetture di qualità e d’autore presenti vengono sacrificate. È il caso dell’edificio dell’Agenzia Brionvega di Franca Helg e Franco Albini ad Arzano, oggi imbrigliato in pannellature di plastica che ne hanno alterato l’aspetto. Oppure il destino dell’edificio ex Covit a Grumo Nevano progettato da Eduardo Vittoria e demolito qualche mese fa per far posto a palazzine da realizzare, ancora una volta, in deroga alle norme urbanistiche, con il consueto “piano casa”.
Sono luoghi che dichiarano la crisi della civiltà urbana, almeno così come l’abbiamo conosciuta e realizzata anche nel secondo ‘900. Quando si sono cimentati, lasciando un’eredità certo a volte complicata, architetti, paesaggisti, scuole di architettura e di ingegneria, sempre comunque in risposta ad una legge, un piano, una programmazione (Ina, 167, Pser, 219, Titolo VIII, ecc.). Oggi non più, in questa sterminata terra di mezzo, vige l’anomia e l’autonomia del fare, e il disordine tollerato oggi contiene in sé e in nuce l’immagine di questi territori sfortunati tra vent’anni. Difendere la terra, stabilire una volta per tutte dove passa il confine della città resta la soluzione. Attendere non è più dato.
Le cose cambiano
Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, 25 novemre 2023
In mezzo agli assilli e alle contrarietà della vita Port’Alba era un rifugio sicuro, quanto piacere e gratificazione c’era nell’esercizio di ricerca, la serendipità felice nel frugare delicatamente quell’arcipelago unico e imprevedibile di libretti, quante sorprese. Non avevamo capito quanto quell’ecosistema fosse delicato, fragile, ora che il meccanismo di competenze e tradizione s’è rotto, riprodurlo a tavolino non è cosa facile. Poi il pensiero si allarga, e rifletti che è solo un ulteriore segnale che la città sta cambiando, era rimasta ferma vent’anni, che ci piaccia o no le cose si sono rimesse in moto, velocemente.
Ora c’è il turismo, non è una nostra decisione, è lui che ha scelto noi, nel passa parola globale è giunto il nostro turno, anche qui, pensavamo che l’ecosistema grande che è il centro storico fosse robusto abbastanza, avesse la forza vitale e gli anticorpi per resistere a tutto, stiamo vedendo che non è proprio così, che ogni cosa è in gioco, nel bene e nel male. A far girare la macchina ci sono tre possenti motori – l’aeroporto, il porto, l’alta velocità – ancora una volta si tratta di forze che rispondono a input e processi più grandi di noi, la sensazione è che la decisione e il controllo non stiano proprio nelle nostre mani.
Poi è arrivato il flusso imponente di soldi del PNRR, lo slogan anche questa volta è stato “presto, che si perdono i soldi”, che per una buona programmazione non è proprio il massimo, speriamo che vada tutto bene, ma una strategia d’insieme sembra mancare, o comunque nessuno l’ha raccontata. Tra l’altro proprio le risorse per i pezzi di città più strategici ed importanti, Scampia e Taverna del Ferro, sembra stiano venendo meno per decisioni incomprensibili del Governo che, su questi temi, ha ostinatamente deciso di non cambiare idea.
Come sempre nella vita, ci sono differenze: se alcuni pezzi di città sono rapiti dal flusso vorticoso del mutamento, altri restano ai margini, a guardare. Così, i due grandi giacimenti del rinnovamento della città stanno immobili, Bagnoli e Napoli est, un capitale sterminato ostaggio di una bonifica all’italiana che non deve concludersi mai, tra propaganda e cinismo, e gli investimenti si tengono alla larga.
Nel frattempo i più giovani e i più bravi – che studino o lavorino – comunque vanno via, hanno deciso che non è più il tempo di aspettare.
Perché non manchi proprio nulla, una bella sballottata l’ha data madre terra, con la ripresa del bradisismo, un respiro millenario del suolo che c’è solo qui al mondo, e sarebbe l’occasione per ripensare Napoli nel territorio ampio che l’avviluppa, quel mosaico metropolitano fragile, squilibrato, gravido di sofferenze e risorse, anche quest’anno relegato in fondo alla classifica di qualità della vita, rispetto al quale un pensiero, l’indicazione di una possibile via di uscita ancora mancano.
In attesa di una visione istituzionale di area vasta, flussi di cose e persone di muovono comunque e l’aggressione ad uno dei territori più densi d’Italia è in corso: Arzano, Parete, Orta di Atella, Pomigliano d’Arco, Volla, ecc., stanno crescendo in un disordine edilizio che erode suolo agricolo per realizzare residenze prive di attrezzature, servizi, standard, per napoletani in fuga dai valori immobiliari alterati al rialzo nella loro città o per semplici investitori, spesso di aree grigie dell’economia.
Nei prossimi giorni i rappresentanti dell’Unesco saranno a Napoli per la loro conferenza sul “Cultural Heritage”, e la domanda è se saranno valutate queste dimensioni, o ci si limiterà ad uno sguardo zenitale e di facciata (nel senso costruttivo del termine) dell’area perimetrata del centro storico.
Tracciare una visione complessiva della città vuol dire pensare largo, nel tempo e nello spazio, sospinti da quella che il sociologo Carlo Donolo ha definito l’intelligenza delle istituzioni: enti pubblici che lavorano per il bene comune, che sono essi stessi beni comuni. Nel flusso impetuoso di mutamenti che ha rimesso in gioco la città, costruire le condizioni per restare, per non andare via, è questo il bene comune più importante.
Se la campagna non c’è più
Antonio di Gennaro, 9 settembre 2023
Il dibattito sul disegno di legge di modifica della legge urbanistica regionale entra nel vivo, come è giusto che sia. Tra i punti che necessitano di una ulteriore riflessione vi sono senza dubbio quelli relativi alla disciplina del territorio rurale che rischia di diventare, se il testo non dovesse mutare, una sorta di optional, un’area a statuto e destinazione incerti, dove tutto può ancora succedere, in contrasto con gli obiettivi di contrasto al consumo di suolo e alla dispersione insediativa, che pure il testo di legge dichiara di voler perseguire.
Il problema sta innanzitutto nelle definizioni. Diversamente da altre leggi regionali – pensiamo soprattutto alla Toscana e all’Emilia-Romagna – il disegno di legge campano istituisce tra la città e la campagna, tra il territorio urbanizzato e quello rurale, una sorta di terra di mezzo, lo spazio periurbano, che comprende sostanzialmente i paesaggi della campagna urbanizzata a bassa densità.
Nella legge toscana e in quella emiliana il territorio urbanizzato comprende solo la città densa, continua, consolidata, dove è giusto e opportuno procedere a tutte le riqualificazioni, recuperi, completamenti necessari. Al di fuori del confine della città consolidata inizia tout court il territorio rurale, che comprende, si badi bene, anche le aree di dispersione insediativa, e qui l’obiettivo è quello della tutela dei suoli non urbanizzati, la valorizzazione agricola multifunzionale, l’edificabilità rurale, sulla base di piani aziendali approvati dall’amministrazione, e basta.
Nel disegno di legge campano avviene per ora il contrario: in assenza di parametri, indici quantitativi misurabili, basta la presenza di pochi fabbricati e un minimo di urbanizzazioni nella campagna aperta per qualificare questi spazi come periurbani, ed allora può succedere di tutto, con la possibilità-limite che nei piani urbanistici la campagna come tale non esista più.
Questi timori sono tanto più giustificati in ambiti come quello della fascia metropolitana regionale, dove il 45% dello spazio è fatto di suoli fertili, con 20.000 aziende agricole che, attorno alla città, spesso dentro di essa, producono sul 15% della superficie coltivata il 40% del valore della produzione agricola regionale. Si tratta dei grandi sistemi rurali della campagna abitata: la piana campana, le colline flegree, i versanti vesuviani, i terrazzamenti della Penisola: paesaggi rurali storici, che in assenza di un ripensamento potranno cascare in larga parte nel limbo periurbano, ed allora che il Signore ci protegga.
Occorre nel disegno di legge un chiarimento profondo di prospettiva. Rispetto ai problemi posti dal cambiamento climatico, dal declino di biodiversità, dalla corrosione dei paesaggi storici, gli spazi agroforestali pregiati che fortunatamente rimangono attorno alla città, compenetrati con essa, sono la nostra assicurazione sul futuro, l’ecosistema di compensazione, regolazione e sicurezza che può aiutare la città a non collassare.
La disciplina di tutela gelosa di questo capitale naturale deve essere meglio declinata nel disegno di legge, con criteri certi, misurabili e verificabili. C’è tutto il tempo per migliorare: la campagna urbana con la sua complessità è parte di noi, pensiamo ai modi giusti per proteggerla, farla vivere ancora.
Le tre pacificazioni che attendono città
Antonio di Gennaro, 4 gennaio 2023
Con l’articolo importante di Laura Lieto, assessore all’urbanistica del comune e vicesindaca del comune di Napoli, pubblicato mercoledì scorso su queste pagine, riparte il discorso pubblico sul futuro della città. Il percorso proposto è una sintesi ragionevole di pragmaticità e strategia. Prima di tutto c’è la necessità di sbloccare/velocizzare le trasformazioni necessarie che il piano regolatore vigente già prevede, soprattutto nella zona orientale. Lo strumento è una variante normativa, da approvare nei tempi brevi. Poi c’è la visione del futuro, con un’agenda articolata di strategie, obiettivi, progetti guida, il tutto sintetizzato in un “Documento strategico per una città giusta, sostenibile e attrattiva”, attualmente all’esame della Commissione urbanistica del Consiglio comunale.
Nel suo articolo l’assessore Lieto giustamente sottolinea l’importanza del processo di ascolto, confronto, partecipazione che da questo momento si avvia, con lo scopo di dotare la città del nuovo piano urbanistico.
Le prime riflessioni, a caldo, riguardano tre urgenze indifferibili, che meritano un’attenzione ulteriore, e che proviamo schematicamente a sintetizzare così: per voltare veramente pagina la nostra città ha bisogno di una triplice pacificazione: con il territorio metropolitano, con i suoi 30 quartieri, con i suoi abitanti di oggi.
Nessun discorso di attrattività può arrestarsi dentro i confini cittadini. La soluzione dei problemi più urgenti (abitazione, rifiuti, trasporti, impianti tecnologici, rischi ambientali ecc.) è perseguibile solo alla scala metropolitana. D’altro canto, ci piaccia o meno, è alla scala metropolitana che gli osservatori esterni, dalla stampa specializzata alla commissione europea, misurano la qualità del nostro sistema di vita e assegnano i loro ranking. Al momento Napoli e il restante territorio metropolitano non si fidano l’uno dell’altro, si guardano con sospetto, sfiducia, la rivendicazione prevale sul senso di cooperazione.
Tornando a noi, all’interno dei suoi confini Napoli rimane un’aggregazione provvisoria di villaggi. Eppure, molti dei suoi quartieri, per peso demografico e territoriale, sono vere e proprie città nella città, ciascuna con un proprio carattere, uno specifico cahier di sofferenze, bisogni, necessità. Per riabbracciare finalmente questo universo complesso all’interno di un destino comune è necessario dimostrare a ciascuna realtà territoriale, numeri alla mano – da Pianura a S. Giovanni, passando per Scampia e S. Pietro a Patierno – che si sta anche operando in direzione di un loro beneficio concreto, di una risposta alle specifiche esigenze locali.
In ultimo, ogni discorso sul futuro deve partire dal riconoscimento delle condizioni difficili e dall’incertezza di prospettive che i napoletani di oggi vivono quotidianamente. Soprattutto nei confronti delle fasce giovani di popolazione la città non è mai stata tanto spietatamente avara. L’articolo dell’assessore Lieto dedica a questi aspetti lo spazio doveroso, ci sembra solo che, prima di pensare all’attrattività per “nuove popolazioni”, la priorità rimanga quella di dare risposta ai cittadini di oggi, offrendo un percorso misurabile di miglioramento dei servizi essenziali, quartiere per quartiere. Sarà un percorso graduale e difficile, nessuno può reclamare miracoli, ma qualche obiettivo verificabile bisogna pure stabilirlo.
Nel lavoro che ci attende verso la costruzione del nuovo piano della città, queste tre pacificazioni, queste tre alleanze da costruire con l’hinterland, i quartieri e i cittadini di oggi, saranno la cartina al tornasole per misurare e selezionare le reali priorità, migliorando e riammagliando l’esistente, mettendo a frutto quanto il PRG già consente, curando e rispettando i suoli della città, riconducendo al governo cittadino il controllo di aree e processi fondamentali, a partire da Bagnoli.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 25 luglio 2023
E’ un librino fondamentale per capire cos’è il paesaggio quello che Paolo Carpentieri, Carlo Iannello e Giancarlo Montedoro hanno scritto (“La concezione crociana di paesaggio nel diritto contemporaneo”, prefazione di Piero Craveri, Editoriale Scientifica, 112 pagine). E non fatevi sviare dal tono accademico del titolo: è un testo scritto semplice, godibile, che dovrebbero leggere tutti, e comunque ha ragione Piero Craveri quando scrive in prefazione che su questi temi “… molte cose sono state dette ma nessuna, a mio giudizio, con la profondità analitica di queste tre relazioni… in cui gli aspetti giuridici costituiscono un punto focale e hanno il necessario approfondimento.”.
Gli autori sono tre giuristi che al paesaggio hanno dedicato una parte importante della loro attività scientifica, istituzionale, didattica, ma sin dalle prime righe appare evidente al lettore come questo libro sia in qualche misura diverso da lavori precedenti, perché più di altri sembra nascere da un’urgenza democratica, in un momento storico nel quale il paesaggio italiano è sotto attacco.
Come ricorda Montedoro nel primo dei tre interventi, con i soldi del PNRR ci accingiamo a destinare una parte importante dei paesaggi rurali del Paese all’installazione di impianti industriali per la produzione energetica da fonti rinnovabili, ma “… la transizione energetica avviene senza il ricorso a strumenti di pianificazione territoriale. Si tratta di una grande lacuna legislativa suscettibile di produrre danni proprio a carico delle nuove generazioni che rischiano di non vedere più il paesaggio agrario pugliese o la dolcezza delle colline toscane, umbre o marchigiane nel loro aspetto tradizionale.”
Insomma, per la Repubblica italiana è un passaggio decisivo, considerato che la tutela del paesaggio, come scritto nell’articolo 9 della Costituzione, è uno dei valori e principi fondativi.
Si capisce bene allora come il ritorno a Croce non abbia nulla di nostalgico, accademico, elitario, ma risponda a un’esigenza del tutto pratica: quella di fare chiarezza sul significato autentico e sul valore originale e autonomo del paesaggio come patrimonio identitario, come modo di percepire, vivere, assegnare valore e significato ai luoghi che abitiamo – i territori rurali come le città – nella continuità di lunga durata della nostra storia e della nostra cultura.
Come scrive Carlo Iannello, è questa l’idea di paesaggio, attualissima, sulla quale Croce costruisce la sua legge del 1922, la prima che lo stato unitario riesce finalmente a darsi, vincendo le resistenze della grande proprietà fondiaria che si sentiva minacciata, affermando invece l’interesse pubblico che il paesaggio riveste, e la necessità ineludibile che lo Stato dica la sua sulle trasformazioni che riguardano il patrimonio culturale comune.
Si tratta, come emerge dall’excursus godibilissimo di Iannello, dei principi, delle basi concettuali sulle quali sono stati successivamente pensati e definiti tutti gli strumenti normativi che l’Italia si è data, dalla legge Bottai del ’39, al decreto Galasso dell’85, al Codice dei beni culturali del 2004, e delle quali anche la Convenzione europea del paesaggio siglata a Firenze nel 2000 alla fine è tributaria.
Certo, come sottolinea Paolo Carpentieri nel saggio finale del libro, rimane la difficoltà di regolare i rapporti non semplici tra tutela del paesaggio, governo del territorio e tutela dell’ecosistema, nel puzzle di competenze che la cattiva riforma del titolo quinto ha contribuito a esacerbare, ma non è confondendo queste cose diverse che il Paese salverà i suoi paesaggi: insomma, anche nella frenesia realizzativa del PNNR, è bene che il paesaggio come principio autonomo conservi la sua forza e ragion d’essere, e su questo il filosofo di Pescasseroli ha ancora maledettamente ragione.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 11 giugno 2023
Con la rimozione degli addobbi inizia il rientro alla normalità, è giusto che a un certo punto le endorfine e l’adrenalina scendano, altrimenti diventa una malattia, e qualcosa rimane, anzi molto, ed è il contributo che anche il calcio ha dato al sentimento positivo con il quale in questo momento il mondo guarda a Napoli.
Senza bisogno di una regia, la città ha costruito in questi ultimissimi anni un soft power basato sull’arte, il cinema, la cultura popolare, la letteratura, il turismo d’affezione, e non è un fatto solo di immagine, è tutto un racconto che Napoli va facendo di sé stessa all’opinione pubblica globale, che immancabilmente piace, persuade.
Se volessimo usare il gergo dell’economia, diremmo che non è tanto il rating della città che si è innalzato (la sofferenza socio-economica strutturale rimane, assieme all’offerta complessivamente scadente di servizi, abitazioni, spazi verdi) quanto l’outlook, che è diventato positivo, l’idea che la città si sia finalmente avviata su un percorso di miglioramento.
Naturalmente è parte del discorso il fatto che Napoli abbia in questo momento una guida credibile, ma è evidente che il miglioramento strutturale richiede tempo, tenuto conto che il sindaco Manfredi e la sua giunta sono chiamati a un lavoro ai limiti del possibile: quello di correre il gran premio mentre stai ancora fabbricando la vettura. La principale opera pubblica che il sindaco è chiamato a realizzare è quella di ricostruire una macchina amministrativa azzerata da un lungo, mesto ventennio di declino.
Passi fondamentali sono stati fatti, a partire dalla messa in sicurezza del dissesto grazie al patto col governo centrale, i concorsi per nuovi funzionari e dirigenti, l’appianamento della controversia sulla proprietà dei suoli a Bagnoli.
Rimangono, in quest’ultima importante partita, gli strascichi nefasti della legge Sblocca-Italia del 2015, con l’assegnazione a un ente di servizio come Invitalia di un anomalo potere decisionale di fatto, e il protrarsi di una bonifica infinita, che da strumento si è trasformato in una vicenda kafkiana senza fine, quando il parco c’è già, e bisogna solo riaprire i cancelli.
Insomma, per migliorare il rating il lavoro è lungo, e richiederà il contributo di tutte le energie delle quali la città dispone. In questa prima fase della nuova amministrazione un ruolo importante di supporto lo ha svolto l’Università, spingendo a mille sul pedale della sua terza missione, che è la crescita del territorio, ma è evidente che per mettere a punto le nuove strategie delle quali la città ha bisogno sarà necessario allargare il campo, aprendo a una collaborazione e una partecipazione più ampia e diversificata.
Per fare tutte queste cose, anche la felicità per lo scudetto, la reputazione a mille, il nuovo soft power della città sono risorse ed energie importanti, che pure contano, se solo vogliamo costruirci sopra qualcosa.
Il romanzo della periferia dimenticata. Una storia di cinquant’anni fa che ci parla di problemi non ancora risolti
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 16 maggio 2023
Si presenta domani, presso la sala “Silvia Ruotolo” in Via Morghen 84, alle ore 17.00, il romanzo di Pio Russo Krauss “Come la luce dell’alba”, La Valle del Tempo Edizioni. Intervengono con l’autore, oltre al sottoscritto, Silvio De Majo, docente di Storia contemporanea e Storia economica presso l’Università Federico II di Napoli, e Paolo Siani, coordinatore del tavolo “Infanzia e Adolescenza” del Comune di Napoli e consigliere della fondazione “Giancarlo Siani”. Titti Pepi leggerà brani del romanzo.
Il romanzo è la storia di un giovane sacerdote, padre Sergio, nella Pianura di cinquant’anni fa, il momento in cui la vita collettiva del casale agricolo millenario viene sconvolta dall’ingresso brusco e drammatico nella modernità, che in queste campagne ha il volto dell’abusivismo, la costruzione febbrile, al di là di ogni regola, sulle terre nere più fertili del globo, di un intero quartiere-città che nessun piano aveva previsto, che oggi ospita più di 40.000 abitanti.
All’inizio del romanzo c’è il cadavere di un colono, s’è impiccato a Masseria Grande nella rimessa scalcinata dietro il vecchio noce, il giovane prete è lì davanti al povero corpo penzolante, impietrito, tra le donne che gli implorano distrutte una benedizione. Scoprirà presto che alla base del suicidio c’è un ricatto spietato, emissari dei costruttori stanno girando i poderi obbligando i coloni analfabeti a sottoscrivere subdolamente lettere di scioglimento del contratto secolare di mezzadria.
Inizia così, drammaticamente, la presa di coscienza di padre Sergio, e il libro è la storia dell’impegno di questo prete ragazzo per organizzare una difesa degli agricoltori minacciati, il suo tentativo di fare della parrocchia dei Frati Agostiniani, in mezzo al casale dimenticato, un luogo di accoglienza e riscatto, scotendo dal torpore confratelli e superiori, aggregando i giovani, aprendola ai bambini delle baracche senza acqua e senza servizi, per un minimo di doposcuola, una visita medica, un’attenzione sconosciuta.
Tutto questo nella Napoli del 1973, una città ribollente di nuovi fremiti e antichi contrasti, che Russo Krauss riesce assai bene a rendere e ricostruire, tra l’epidemia di colera, il referendum sul divorzio, il declino industriale a est e a ovest, l’ascesa delle sinistre e le resistenze democristiane, ancora poco e sarebbe iniziata l’esperienza esaltante e difficile della giunta Valenzi.
Ancora, sono gli anni nei quali inizia a imporsi la questione ambientale, della prima crisi petrolifera, l’austerità, le domeniche a piedi. Nella Chiesa cattolica è il tempo esaltante dell’apertura post-conciliare, del rinnovamento liturgico, della richiesta da parte dei laici di nuovi ruoli e responsabilità, nuovi modi di vivere ed esprimere la stessa fede.
Nel romanzo di Pio Russo Krauss ci sono tutte queste cose, attraverso la storia quotidiana, come l’avrebbero raccontata Manzoni o Tolstoj, del gruppo di uomini e donne che attorno a padre Sergio sono chiamati alla scelta decisiva tra il lasciar correre e il mettersi in gioco, andando controvento, contro l’inerzia delle istituzioni, lo scetticismo maggioritario, la spietatezza degli interessi. Ma anche la difficoltà di far lavorare e dialogare insieme su obiettivi comuni di riscatto – è una delle fatiche maggiori che Sergio dovrà affrontare – le diverse forze del cambiamento possibile.
Il finale è aperto: come è inevitabile, padre Sergio si troverà da solo a rispondere delle sue scelte, tra queste l’amore per la ragazza che ha scelto di stargli accanto in mezzo alle difficoltà; pagherà tutti i prezzi, ma l’impegno e la fede resteranno.
In questo libro la storia ti prende e non ti lascia più, e ti accorgi alla fine che con il suo romanzo Pio Russo Krauss è riuscito in un’impresa non semplice: ricordare che ci sono momenti decisivi nella vita della città e degli uomini che la abitano, nei quali hai la sensazione che la storia possa cambiare il suo percorso; riconoscere oggi che le domande e le urgenze rimaste sul tavolo, sono ancora quelle alle quali allora non riuscimmo a dare una risposta.
Grazie, resto a casa. Con tutta la gioia, la commozione che ci ha afferrato al gran gol di Raspadori, il momento in cui tutti abbiamo sentito che era fatta davvero. Però grazie, me ne sto a casa.
A pensarci, una commozione non diversa da quella vissuta sedici anni fa nel momento della promozione dalla C alla B, e poi il ritorno in A. E’ passato tanto tempo, non c’era tutta questa frenesia: il Napoli degli scudetti e del dio del calcio in terra non esisteva più, erano solo radiocronache ascoltate a casa da soli, cose importanti solo per noi.
Tornare a quei momenti aiuta a comprendere ancor di più la qualità del progetto sportivo e imprenditoriale che Aurelio De Laurentis già allora doveva avere in mente.
Per il resto è tutto un mistero, cosa sia questo demone che ci prende totalmente, che comanda i sentimenti e la felicità, con una potenza che le altre nostre povere occupazioni terrestri proprio non possiedono.
L’entusiasmo collettivo finisce ora per contagiare anche quelli che sembravano immuni dal culto: i figli che studiano o lavorano fuori tornano a Napoli apposta, non vogliono mancare alla grande festa, anche quelli che il calcio non gli era mai importato più di tanto, ma è evidente che questa è una cosa va al di là dell’evento sportivo.
Gli amici sparsi per il mondo ci avevano già raccontato dell’interesse crescente intorno al Napoli, alla sua cavalcata entusiasmante, forte solo della propria qualità di gioco, la capacità di dominare il campo, lo spazio, l’avversario, in Italia e fuori, è una storia che ha affascinato molti in giro per il globo.
Così oggi non sorprende ci possa essere anche un turismo legato allo scudetto, decine di migliaia di presenze che saranno qui, come si va al Carnevale di Rio, a un grande rito e spettacolo collettivo al quale, al di là del proprio tifo e appartenenza, non si vuole mancare.
Tutto ciò in un momento storico particolare, nel quale la città è nel cuore del mondo, con la sua bellezza, la cultura, l’immaginario, la gente, la storia, a dispetto di tutti i limiti e le insufficienze. Anche questo alla fine è un mistero. Sta solo a noi, ora, da tutta questa felicità provare a costruire qualcosa, anche piccola, che resti.
Un fiume di emozioni e speranze tutte insieme, per questo sia lode a Eupalla, la dea del calcio, ma non penso di farcela, è una cosa troppo grande, i quartieri vestiti di azzurro li ho respirati tutti, grazie, resto a casa.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 marzo 2023
Si presenta oggi alle 16, nella sala “Catasti” dell’Archivio di Stato, il libro di Vezio De Lucia “L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana”, DeriveApprodi editore, con gli interventi della direttrice dell’Archivio Candida Carrino, del giornalista Francesco Erbani e di Laura Lieto, assessore all’urbanistica e vicesindaco del comune di Napoli, moderati dalla storica dell’ambiente Gabriella Corona direttrice dell’ISMED- CNR.
Nel libro c’è il racconto agile e denso, 120 pagine che si leggono d’un fiato, del percorso difficile e contrastato lungo il quale la giovane repubblica ha guidato il paese nel passaggio brusco alla modernità: i pochi cruciali decenni, a partire dal secondo dopoguerra, nei quali il volto e l’organizzazione territoriale dell’Italia sono mutati irreversibilmente, dall’assetto rurale millenario, a quello odierno, metropolitano, dell’ottava economia mondiale.
L’importanza del libro sta nel fatto che non si tratta di una ricostruzione asettica, perché all’urbanistica e alle politiche per paesaggio e l’ambiente Vezio De Lucia ha dedicato l’intera vita professionale, amministrativa, politica, spesso con ruoli rilevanti, e allora molto del fascino e del calore che il racconto sprigiona sono proprio legati al carattere di testimonianza diretta, critica, apertamente schierata sulle vicende narrate, con l’obiettivo di tentare un bilancio, ma anche di indicare, nonostante le difficoltà, frustrazioni e battute d’arresto, una direzione futura possibile.
Nel racconto, un ruolo importante lo hanno le figure notevoli che De Lucia ha incontrato, che lo hanno ispirato, a fianco delle quali ha lavorato e lottato, su tutte quelle di Antonio Cederna, cui è dedicato un intero capitolo, e poi Eddy Salzano e Italo Insolera, le cui foto in bianco e nero nella sezione finale del libro visualizzano con straordinaria efficacia molti dei temi affrontati.
I fili che la narrazione segue sono molti, ma quello principale è legato all’incapacità drammatica, mostrata dalla Repubblica italiana nei suoi quasi ottant’anni anni di vita, di dotare il paese, sull’esempio delle altre democrazie liberali europee, di una disciplina nazionale sull’uso e la pianificazione dei suoli, in sostituzione della legge urbanistica fondamentale, che continua a rimanere quella promulgata dal regime fascista nel 1942.
Nelle democrazie europee di maggiore tradizione, a partire da quella inglese, il fatto che il suolo non sia un bene di mercato come un altro, ma una risorsa irriproducibile, disponibile in quantità limitata, sul cui utilizzo l’autorità pubblica debba mantenere una potestà superiore, a garanzia dell’interesse e del benessere collettivo, è ritenuta la precondizione affinché una vera economia di mercato possa svilupparsi. Principi sacrosanti, che in realtà sono presenti anche nella nostra Costituzione, in un pugno di articoli aurei – 3, 9, 32, 42, 43 – dai quali non è però mai scaturita da parte del parlamento una legislazione ordinaria conseguente.
Quello che rimane in Italia, dopo la riforma del Titolo V, è un mosaico disforme di leggi regionali la cui somma, è evidente, non è in grado minimamente di definire quell’idea unitaria e coerente di paese della quale abbiamo bisogno per convivere e competere nel contesto globale, e per assicurare ad ogni cittadino, sostenibilmente, la giusta quota di beni e servizi pubblici.
Preso atto di questo quadro di debolezza complessiva, la proposta di De Lucia per il futuro è improntata a un assai ragionevole pragmatismo operativo: per chi volesse in Italia spendersi ancora per la pianificazione pubblica delle risorse ambientali, dei paesaggi, dello spazio di vita delle persone, è inutile a questo punto puntare su nuove leggi, quanto sull’uso intelligente di quelle che già ci sono, a partire da ciò che rimane dalla legge fondamentale del ’42, dai principi importanti contenuti nel Codice del paesaggio del 2004, dall’integrazione delle leggi specialistiche per la difesa del suolo e per le aree protette, che pure sono una conquista importante dell’ultimo scorcio di ‘900.
Questo vale anche e soprattutto per Napoli. In più occasioni nei suoi interventi pubblici il vicesindaco Laura Lieto, che è anche assessore all’urbanistica e interverrà come detto nella presentazione del libro, ha affermato che il piano regolatore vigente è stato e rimane una risorsa per la città, con la sua visione di tutela delle aree verdi e del centro storico, e di trasformazione delle aree industriali dismesse a oriente e occidente della città. Quel piano, che ha decretato lo stop al consumo di suolo, è stato pensato all’inizio degli anni ’90, quando Vezio De Lucia ha ricoperto per poco più di tre anni la carica di assessore all’urbanistica nella prima giunta Bassolino.
E’ evidente dopo trent’anni, in questo mondo nuovo nel quale ci tocca vivere, profondamente mutato dalla crisi climatica, la pandemia, lo sviluppo della rete, gli assestamenti imprevisti nei rapporti internazionali, che l’amministrazione debba impegnarsi nella redazione di un nuovo piano urbanistico comunale, rinnovando la strategia di tutela attiva dei beni pubblici e del patrimonio storico, e liberando finalmente le trasformazioni a Bagnoli e a Napoli Est, intrappolate da una bonifica autoreferenziale all’italiana, che non ha mai termine, guardando alla scala metropolitana dei problemi e delle soluzioni. Perché alla fine, come scrive De Lucia nelle righe finali del volumetto, l’urbanistica contemporanea deve essere conservatrice e rivoluzionaria, come il partito pensato da Enrico Berlinguer.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 21 marzo 2023
E’ bella e opportuna la scelta dei carabinieri forestali di celebrare insieme domani, ad Avellino, le due giornate internazionali che l’ONU ha voluto dedicare alle foreste (21 marzo), e all’acqua (22 marzo): le due risorse sono strettamente legate all’interno dell’ecosistema-mondo, il ruolo dei boschi nel ciclo complesso che produce l’acqua dolce per la vita quotidiana dell’uomo e degli altri viventi è assolutamente determinante, si tratta di cose che dobbiamo proteggere e curare insieme.
Così come è bella e opportuna la decisione di celebrare l’evento regionale ad Avellino, a partire dalle 9.30 presso l’Auditorium BPER Banca, al Centro direzionale “Collina Livorini” in Via de Due Principati 143, nel quadro delle iniziative organizzate a scala nazionale. L’Irpinia è uno dei cuori verdi della Campania, è in questa terra una parte cospicua del patrimonio boschivo regionale, ed è chiaro che non stiamo parlando non solo di ambiente e paesaggio, ma di una risorsa multifunzionale che contribuisce all’economia, al lavoro, alla sicurezza del territorio, insomma alle condizioni di vita nelle nostre aree interne.
Il punto di partenza è l’importanza che la risorsa forestale e quella idrica hanno per la nostra regione. Il 37% del territorio regionale è coperto da boschi, e la tendenza è in aumento, la copertura forestale è raddoppiata in un settantennio, toccando armai una superficie complessiva vicina ai 500.000 ettari, come effetto del drammatico abbandono del nostro Appennino, che rimane per inciso, a partire dall’Irpinia, la più grande fabbrica di acqua dolce del Mezzogiorno d’Italia.
Diversamente da altre parti del mondo, dove il bosco complessivamente è in arretramento, da noi il problema è quindi quello contrario: prendersi cura dei nuovi boschi, che sono cresciuti senza chiedere il permesso, ed ora hanno bisogno della nostra attenzione, perché l’abbandono non è una strategia perseguibile, come la Costituzione dice, e come gli incendi del Vesuvio e le frane di Sarno e Casamicciola (tutti eventi nei quali il bosco ha giocato un ruolo determinante) hanno drammaticamente ricordato. Curare i nostri boschi, usare con sobrietà l’acqua preziosa della quale disponiamo, è questa la strada per contribuire alla lotta difficile al cambiamento climatico, al degrado delle risorse essenziali alla vita.
Scorrendo il programma della giornata è evidente l’intenzione di organizzare su questi temi fondamentali non un evento, ma una giornata di ragionamento e lavoro, alla quale prendono parte le istituzioni ai diversi livelli, l’università con le sue missioni di ricerca, formazione e promozione territoriale; il mondo della scuola, con il coinvolgimento attivo di docenti e studenti di una decina di istituti secondari afferenti ai più diversi indirizzi umanistici, scientifici, tecnici, artistici.
Insomma, intorno alla gestione sostenibile dei boschi e alla protezione e all’uso responsabile della risorsa idrica può nascere in Campania una nuova economia, nuove opportunità e percorsi di lavoro qualificato per i nostri ragazzi: la giornata di oggi ad Avellino serve proprio a questo, a proteggere la nostra terra, a rilanciarne la bellezza e l’economia, partendo da un un’alleanza tra istituzioni, scuola, mondo della ricerca, è da questo gioco di squadra che possiamo ripartire.
Due presentazioni, a due giorni di distanza, due pomeriggi a Napoli, ma sono pagine di una storia sola.
Si inizia il 29 marzo, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, con la presentazione del libro importante nel quale Andrea Costa e Sauro Turroni hanno racconto gli scritti, i discorsi parlamentari, le proposte di legge di Antonio Cederna (“Antonio Cederna, un giro d’orizzonte”, Biblion edizioni).
Poi il 31, all’Archivio di Stato, la presentazione dell’ultimo libro di Vezio De Lucia, “L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana” DeriveApprodi editore.
Le due locandine, su Horatiopost nei prossimi giorni, qualche riflessione a proposito.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 24 febbraio 2023
E’ evidente che la scelta tra la “restanza”, come l’ha chiamata l’antropologo Vito Teti, e il cercare altrove le proprie opportunità di vita e lavoro, non è sindacabile, attiene alla sfera sacrosanta delle libertà personali. E’ altrettanto vero però che a scala macro il discorso cambia, un territorio che perde i suoi abitanti un problema ce l’ha, una riflessione è obbligato a farla.
Da questo punto di vista l’ultimo rapporto ISTAT sulle migrazioni, ne ha parlato Bianca De Fazio di recente sulle pagine di questo giornale, offre uno scenario assai preoccupante per il Sud Italia, che perde nell’ultimo decennio 525mila residenti, come saldo tra un milione e 138mila partenze e 613mila arrivi. Maglia nera la Campania che da sola contribuisce per il 30% alle cancellazioni, mentre la provincia italiana che perde più abitanti in assoluto è quella di Napoli, con 17mila partenze.
Stiamo parlando evidentemente di migrazioni interne, di persone che lasciano il Mezzogiorno per le regioni del Nord, la Lombardia prima fra tutte. In questo modo il Sud Italia aiuta il Nord a compensare le sue perdite demografiche, dovute questa volta agli espatri. E’ un fenomeno che riguarda in special modo i ragazzi laureati, 157mila dei quali hanno scelto di trasferirsi in regioni del Nord. La conclusione, secondo il rapporto ISTAT, è che “… le giovani risorse qualificate provenienti dal Mezzogiorno costituiscono dunque una fonte di capitale umano per le aree maggiormente produttive del Nord e del Centro del Paese e per i paesi esteri.”
In un simile scenario, non è nemmeno più possibile considerare l’emigrazione un rimedio doloroso ma in qualche modo salutare per i territori, come poteva scrivere Manlio Rossi-Doria alla metà del secolo scorso, perché consentiva di riequilibrare un rapporto sbilanciato tra sovrappopolazione e scarsità di risorse.
Era quella un’altra Italia, premoderna, la metà degli occupati lavorava in agricoltura, ora sono il tre e mezzo per cento. Nella fase storica che viviamo la perdita di abitanti corrisponde a un impoverimento netto, a un’erosione ulteriore della rilevanza che il Mezzogiorno ha negli equilibri nazionali.
Al tavolo dove si distribuiscono le risorse, dove già siamo soccombenti, alla fine è un circolo vizioso che rischia di autoalimentarsi, tra irrilevanza e ritardo di sviluppo, con la rete dei servizi essenziali che con le regole che si stanno decidendo, a partire dalla scuola, si sfilaccia e indebolisce sempre più.
Le aspettative per il cittadino non sono rosee. Ragionevolezza vuole che occorra tempo per invertire la rotta, servono “i cavalli dal fiato lungo” dei quali parlava sempre Rossi-Doria, con orientamenti e scelte perseguite tenacemente, superando le discontinuità e i cambi dei governi locali.
Tutto questo, per di più, in un contesto nazionale non favorevole. Nella nostra Costituzione sono scritti insieme i principi dell’unità della Repubblica, dell’impegno a ridurre le distanze tra persone e territori, dell’autonomia, ma il bilanciamento attuale è tutto a favore di quest’ultima, con i primi due ridotti a parole di circostanza. L’egoismo e il particolarismo prevalgono.
Sarebbe il momento giusto questo per considerare chi siamo veramente, non un deserto indistinto ma un mosaico di problemi e risorse, di aree di sofferenza, ma anche di cose che funzionano, e l’affermazione del Calcio Napoli può essere di stimolo e di esempio, di come sia possibile affermarsi ad armi pari, sul campo, puntando su un proprio modello organizzativo, un’applicazione, una strategia, uno stile di gioco.
E’ quello che dovremmo cercare di fare a una scala diversa, eludendo con scaltrezza lo spot fasullo nel quale molti vorrebbero relegarci: l’agricoltura e il turismo sono senza dubbio importanti, sono elementi di attrattività, ma da soli non bastano, quando va bene formano un quarto del pil, il resto lo fanno l’industria, la manifattura, i servizi, possibilmente non come li abbiamo pensati nel ‘900, sfasciando il paesaggio, ma con una visione e uno stile nostro, da proporre con coraggio, col fiato lungo, sui campi dove si gioca il destino del Paese.
La riflessione di Paolo Pileri pubblicata oggi da Repubblica Napoli.
“Nessuno ha diritto a trattare la terra come l’avaro il suo gruzzolo d’oro”. Queste parole, così forti e belle che Marguerite Yourcenar fa dire all’imperatore Adriano, nascondono una questione sulla quale l’Italia si è incartata da tempo: l’uso incosciente del suolo. Dove la parola ‘incosciente’ non è un caso, visto che l’uso coscienzioso implica avere chiaro in testa proprio cosa è il suolo e a quali valori culturali ed ecologici riferirsi per rispettarlo. Soprattutto nella testa di urbanisti e decisori politici ai quali la comunità dei cittadini consegna la delega dei piani dove si decide come usare il territorio, che diventerà l’ambiente e il paesaggio per figli e poi nipoti. E qui iniziano i problemi.
Già, perché come facciamo a decidere come trattare la terra se non sappiamo cos’è e quali effetti si generano dalla nostra decisione? Da decenni il suolo è visto né più né meno come una piastra pronta a fare da supporto a strade, capannoni, case, impianti e autostrade. Ancora oggi non viene messo in discussione il diritto di un proprietario di domandare di costruirci sopra ed è comunemente accettato che sia ‘giusto’ ricavare dall’urbanizzazione quanto più profitto si può. Il suolo sembra essere lì per quello, solo per quello. Tutti ne sono convinti. Ma è davvero così? La risposta è no.
Ed è per questo che ne discuteremo venerdì 3 febbraio, ore 17.00, alla Casa della Cultura di Pianura (strada comunale Grottole 1) a Napoli a partire dal mio libro “L’intelligenza del Suolo” (Altreconomia, 2022) e da quello di Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, “7 Pezzi facili” (Clean, 2022) che affronta questi temi con riferimento alle periferie e alle campagne urbane della città di Napoli. Parteciperanno all’incontro il presidente della IX Municipalità Pianura-Soccavo Andrea Saggiomo, e Laura Lieto, assessore all’urbanistica del Comune di Napoli, che tirerà le conclusioni. Su questi stessi temi altri due incontri dedicati a “L’intelligenza del suolo” sono programmati nella giornata di sabato 4 febbraio: la mattina a Caserta al Polo Scientifico dell’Università della Campania (Viale Lincoln 5); alle 18.00 alla Casa del Volontariato a Salerno (Corso V. Emanuele 90).
In tutti i tre appuntamenti dimostreremo che il suolo è proprio intelligente oltre a essere un ecosistema fragile e non resiliente dal quale dipendiamo per il cibo, la regolazione climatica, la biodiversità, lo stoccaggio di CO2, la prevenzione dei disastri idrogeologici, la depurazione dell’acqua. Diremo anche che la più grande stupidità che possiamo fare è continuare a trattarlo come l’avaro che guarda solo al suo tornaconto, continuando a fare la sola cosa che sa fare: cementificare come se non ci fosse un domani. Il consumo di suolo è una vera e propria piaga ambientale e sociale che toglie fiato, bellezza e buona vita agli abitanti di oggi e domani.
Mentre il suolo non asfaltato ci regala benefici, quello asfaltato ci dà spesa pubblica. Ma non se ne parla. Porteremo i dati del consumo di suolo della Campania mostrando, anche, quanto si cementifica nelle aree più franose ed esondabili. E proveremo, assieme, ad aprire una nuova traccia per il futuro facendo del rispetto dell’intelligenza del suolo una bandiera sotto la quale generare lavoro, benessere, coscienza civica e un altro modo di intendere il governo del territorio.
E allora, possiamo permetterci di sapere così poco del suolo e della sua fragilità? Possiamo pensare un futuro con altro cemento su suoli agricoli, ritardando la rigenerazione urbana di ciò che già esiste? Fare luce sull’ecosistema che sta sotto i nostri piedi, la pelle del Pianeta, sarà il primo passo per conoscerlo, per essere più consapevoli e aprire gli occhi. Il suolo non è una ‘cosa’ da sfruttare, ma un ecosistema da tutelare che chiede a tutti noi di prendere posizione, di parlarne, di chiedere cambiamento. Possiamo farlo: starà meglio l’unico pianeta che abbiamo. E tutti noi.
Paolo Pileri insegna Pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano
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